giovedì 27 maggio 2010

Profitto fino all’ultima goccia




Le ultime misurazioni riguardanti le risorse idriche risalgono al 1971 e i numeri usati e divulgati tuttora non sono altro che elaborazioni statistiche. In più, nel nostro paese non c’è nessun organismo che pianifichi e controlli la risorsa acqua. Sono i due grandi problemi che accompagnano il tema ora all’ordine del giorno, cioè il completamento della privatizzazione del servizio idrico locale, da cui partiamo per un ragionamento sull’acqua a tutto tondo.
Già prima del 2000, ai beni essenziali alla vita era stata attribuita una rilevanza economica e imprenditoriale e fra i soggetti candidati a gestire i servizi locali c’erano, in linea con le indicazioni dell’Ue, anche le società per azioni (Spa). Le modalità di affidamento dei servizi, compreso quello idrico, da parte degli enti locali erano quattro, anzi cinque:
1) tramite gara a una Spa;
2) senza gara a una Spa, purché una quota della Spa fosse stata messa a gara;
3) «in house», cioè con affidamento diretto anche a una Spa, purché quest’ultima fosse sotto il totale controllo del soggetto pubblico appaltante e lavorasse esclusivamente per questo soggetto;
4) affidamento diretto a un’azienda speciale;
5) infine, gestione in economia, di fatto tuttora possibile, riservata ai piccolissimi comuni, che non hanno uno specifico bilancio dedicato alle acque, e quindi sono di scarso interesse economico per i privati.
Con il testo unico sugli enti locali (legge 267 del 2000), i governi D’Alema e Amato, aprono le porte alla «spaizzazione»: la normativa conferma che i servizi pubblici locali possono essere gestiti da Spa o Srl a prevalente capitale pubblico o da Spa non necessariamente a prevalente capitale pubblico. Ma, in più, si afferma che le aziende speciali (che già agli inizi degli anni novanta avevano sostituito le vecchie municipalizzate, diretta emanazione degli enti locali) possono essere trasformate in società per azioni, di cui gli enti locali possono restare azionisti unici per un periodo non superiore ai due anni. La legge prevede cioè la trasformazione in Spa di aziende già «snaturate», ma che comunque erano ancora enti «strumentali» dell’ente locale, cioè a esso inscindibilmente collegati e di fatto dipendenti, e ricadenti nell’ambito del diritto pubblico. Il testo unico prosegue così nell’opera già avviata dalla legge Bassanini del 1997 e apre un’autostrada allo smantellamento della possibilità di mantenere di fatto il servizio idrico in capo al soggetto pubblico (la modalità 4). Questa opzione viene poi del tutto cancellata dal successivo governo Berlusconi con la finanziaria 2002 (legge 448 del 2001) e la legge n. 326 del 2003. Rimaneva in piedi la modalità 3 (affidamento «in house» anche a Spa, purché sotto il totale controllo dell’ente, quale unico committente) come ultima possibilità di mantenere pubblica la gestione del servizio idrico, tuttora prevista dalle regole europee. In modo beffardo, invece, l’attuale governo Berlusconi ha accampato proprio presunte norme comunitarie, inesistenti, per cancellare definitivamente questa modalità di affidamento. A stabilirlo è l’articolo 23 bis della legge 135 del 2009, impropriamente detto decreto Ronchi (Andrea, Pdl), da più parti giudicato incostituzionale: oggi una legge dello Stato non può imporre a un ente locale come organizzarsi, quale forma dare alle aziende o con quali modalità affidare i servizi pubblici. Ad oggi, però, in assenza di un pronunciamento della Corte costituzionale o di un verdetto popolare, tutte le concessioni scadono entro il 31 dicembre 2010 e per la gestione del servizio idrico non restano che le Spa, magari quotate in borsa. In barba alle scelte diametralmente opposte che stanno facendo altri paesi e città, come Parigi, che ha deciso di ripubblicizzare il servizio, in piena sintonia con le norme europee. Finora, però, abbiamo affrontato solo una parte del grande tema del governo dell’acqua. Il servizio idrico, infatti, si occupa praticamente solo degli usi civili, che coprono il 20 per cento dell’acqua consumata, quella potabile. Il resto delle risorse idriche è usato in agricoltura (50 per cento), industria (20) e per scopi energetici. Di questo ‘restante’ 80 per cento non si occupa praticamente nessuno, dicono alcuni esperti del settore, convinti che quando si parla di acqua si debba farlo a 360 gradi, sia perché esiste un equilibrio fra le parti, sia perché c’è il rischio costante di conflitti fra i diversi usi, a maggior ragione quando la risorsa è carente: e l’acqua, si sa, è una risorsa limitata da tutelare. Né può essere dimenticata l’assenza cronica di conoscenza, pianificazione e controllo pubblico sulle acque in Italia, che riemerge puntualmente a ogni emergenza o disastro, per poi essere accantonata di nuovo. Tutti i numeri che vengono citati, anche quelli appena evocati, sono approssimativi perché non esistono gli strumenti né le strutture che fanno questo lavoro: gli ultimi dati frutto di controllo e monitoraggio, insomma di una misura, risalgono alla conferenza sulle acque del 1971. Quindi i numeri che circolano, prodotti anche da prestigiosi istituti, non sono altro che elaborazioni statistiche, come sostiene anche l’Irsa, l’istituto di ricerca sulle acque del Cnr, che parla di conoscenze approssimative. Che sono tali anche in riferimento ai comportamenti illegali: per quanto riguarda i prelievi da pozzo, una stima di circa cinque anni fa dello stesso Cnr diceva che i tre quarti, in termini numerici, non sono censiti. Vuol dire che quasi certamente sono abusivi e il ruolo più rilevante lo gioca l’agricoltura. Quanti siano i prelievi da pozzo è difficile dirlo: si parla, solo nel nord Italia, di almeno un milione. Gli economisti del settore chiamano tutto questo «dissimmetria informativa», per cui chi gestisce un servizio, mettiamo una Spa, riesce con il tempo a conoscerlo esattamente, a saperne dati e numeri, a differenza di chi il servizio lo affida, cioè l’ente locale. In effetti, la fonte di quello che, per esempio, i romani sanno sull’acqua che usano è l’Acea, cioè la Spa a maggioranza pubblica e quotata in borsa e iscritta a Confindustria che gestisce il servizio per conto del comune. Fra i soci ci sono imprenditori come Caltagirone e multinazionali come la francese Gdf Suez, ma il Campidoglio sta esaminando la pratica di privatizzazione dell’Acea cedendo gran parte delle sue quote: la vicenda ha scatenato tali proteste che il sindaco Gianni Alemanno tirato il freno, almeno fino alle elezioni regionali (una scadenza che ha messo il silenziatore a un’infinità di temi «sensibili»). Qual è l’obiettivo di una Spa? Evidentemente guadagnare molto e distribuire dividendi ai soci. E come guadagna? Vendendo il più possibile (nel nostro caso acqua) e investendo (speculando?) su altri settori remunerativi. Quindi, non solo una Spa non punterà mai sul risparmio della risorsa acqua, anzi, ma non ha alcun interesse né a fare investimenti a medio-lungo termine per migliorare la qualità del servizio, né a offrire le conoscenze al soggetto pubblico o ai cittadini, peraltro impossibilitati a orientarne, o anche solo a discuterne, le scelte. A questo si aggiunge l’assenza totale di controlli pubblici, necessari quando a gestire il servizio è l’ente locale. E poi, chi dovrebbe fare il censimento e la lotta ai prelievi abusivi di acqua, agli sprechi, eccetera, che riducono la risorsa facendone fluttuare i costi? Nessuno se ne preoccupa.

di Anna Pacilli
Fonte: http://www.carta.org



domenica 16 maggio 2010

Teleperformance cosa vuol dire fare figli ai tempi del call center



Ogni favola che si rispetti dovrebbe avere un lieto fine. A trentadue anni Ferdinando Sorrenti pensava di avere trovato il suo. Dopo un diploma e 13 anni di precariato alle Poste Italiane, a farlo sognare ad occhi aperti è stato il richiamo di un posto fisso. Un contratto part time a tempo indeterminato offerto, tre anni fa, da un call center di Taranto, Teleperformance. Erano bastate sei ore di lavoro al giorno, pagate 7,5 euro l’una, perché Ferdinando e sua moglie provassero a scrivere la loro trama: un matrimonio e una bambina, Beatrice.

Ferdinando, a dire il vero, non è stato il solo a credere al lieto fine. I circa duemila impiegati della società, una volta ottenuto un contratto stabile, hanno immaginato una vita diversa. In 385, ad esempio, hanno deciso di avere figli. Trecento sono già nati, 85 lo faranno presto. Gli altri, più banalmente, hanno allargato i propri orizzonti. Mutui, auto, mobili, vacanze, magari una laurea. Ma la vita non è una fiaba. Non al sud, non a Taranto, tanto meno se lavori in un call center italiano. L’incantesimo si è rotto il primo aprile scorso. Quando Teleperformance ha aperto lo stato di crisi chiedendo 674 licenziamenti. Colpa di una circolare del dicembre 2008 a firma Maurizio Sacconi che ha riportato il settore agli albori, alla giungla, dove il più forte mangia sempre il più debole. E il più debole di solito è il lavoratore. E dove, naturalmente, non c’è spazio per i sogni.

Taranto è un posto duro. Quando arrivi ti accoglie l’Ilva e i suoi interminabili cancelli. Acciaio e fatica. Qui Teleperformance sbarca nel 2005. La città viene preferita a Catanzaro, poco collegata. La scelta di un centro del Sud, comunque, permette alla multinazionale francese, presente in 50 paesi, di usufruire di incentivi. «Uno, generale, legato al rilancio di zone sottoutilizzate», sostiene la Cgil locale, «è contenuto nella Finanziaria: 10mila euro a dipendente». L’altro glielo offre nel 2007 la regione Puglia: 6,8 milioni come supporto a 936 assunzioni.

Appena messo l’annuncio di assunzione, in poche ore nella sede di via del Tratturello Tarantino arrivano 800 curricula. Michela Miceli è una delle prime ad essere assunta nel giugno del 2005. «Mi ricordo anche la matricola: 0048». A 33 anni, una separazione alle spalle, l’arrivo del call center «è stata l’unica boccata d’ossigeno in una città difficile». A Taranto e provincia c’è fame di lavoro. Su 500mila abitanti i disoccupati sono circa 60-70mila. Ma forse più. Gli uffici del centro per l’impiego provinciali non conoscono neanche la cifra esatta. Quelli che bussano alla porta di Teleperformance sono quasi tutti diplomati e una larga fetta, circa il 30%, laureati. Moltissime donne, poi. Oltre il 70% delle assunzioni. Il call center, con i suoi duemila dipendenti, diviene ben presto la seconda industria per numero di occupati. Solo l’Ilva sfama più gente. «Per la prima volta - spiega Rocco Sorallo - ci è stata data la possibilità di fare qualcosa della propria vita». Come un figlio, ad esempio, a 36 anni. «Gabriele è nato una settimana dopo la regolarizzazione».

Il posto «fisso» arriva per tutti dopo l’11 aprile 2007. Dopo, cioè, che azienda e sindacati firmano un accordo che recepisce la circolare 17 del 2006, voluta dall’allora ministro del Lavoro Cesare Damiano, con la quale si impone la stabilizzazione dei precari «in bound» dei call center. Sono i lavoratori che rispondono alle chiamate. Nell’intesa si va oltre. Teleperformance stabilizza anche chi lavora «out bound», cioè i dipendenti che fanno campagne informative, che chiamano i potenziali clienti. «Per noi - ci dice Cosimo Caforio, 49 anni, sposato con due figli e 18 anni di lavoro da contabile alle spalle - è stata una conquista». Durata poco, però. «L’azienda - racconta Andrea Lumino della Slc Cgil di Taranto - inizia subito ad accusare un calo di commesse». Secondo Teleperformance l’accordo fa aumentare i costi di lavoro del 30%.

Questo perché pochi altri gruppi in Italia seguono l’esempio francese. Nel settore si viaggia sempre con contratti a progetto da 2,5 euro l’ora. Nonostante una seconda circolare Damiano, dell’aprile del 2008, l’orologio torna indietro. Sacconi, nel dicembre dello stesso anno, cancella la precedente normativa. Niente stabilizzazioni. Di più. La circolare consente alle aziende di tornare alla logica dei massimi ribassi per ottenere appalti. Vince, cioè, chi propone un prezzo più basso. E come si fa? Sottopagando i lavoratori, cancellando tutele e diritti. In questo mercato - dove si arriva anche a sospendere un’asta, quella di Poste Italiane, per eccesso di ribasso - Teleperformace annuncia lo stato di crisi.

Per molti lavoratori il lieto fine si dissolve nel giro di un giorno di aprile. Valeria Leopardi, a 33 anni ha acceso un mutuo da 130mila euro, Maria De Giorgio, a 47 anni, ha due figli e un marito precario da mantenere, Simona Tempesta, 37 anni e una laurea, una bambina da sfamare, Deborah Matarrelli, 35 anni, un’auto da pagare, Domenico Perelli, 31 anni, una laurea da conseguire, Tatiana Sisto, 23 anni, una vita da immaginare. Tutti, comunque, ripongono i sogni nel cassetto. La rabbia è talmente alta che al primo sciopero convocato dai sindacati, il 30 aprile scorso, partecipa il 98% dei lavoratori. Imbufaliti non solo per la mobilità, che sarà discussa a breve davanti al ministero del Lavoro, ma anche perché Teleperformance continua a lavorare: con una società satellite, la Ob.Tel. Che però offre contratti a progetto da due euro l’ora. Come nel resto della provincia. Dove l’attività di call center, come spiega Amedeo Pesce segretario generale della Slc-Cgil della città, «si svolge nei garage e nei sottoscala». A Taranto, al sud, nei call center non esistono le favole. E tanto meno il lieto fine.

15 maggio 2010

di Roberto Rossi

Fonte: http://www.unita.it


sabato 1 maggio 2010

Una volta tanto si distingue la destra dalla sinistra



Un emendamento presentato dall’ex ministro Damiano ha generato un fatto nuovo e chiarificatore nel dibattito in corso circa l’ammissibilità dell’arbitrato nelle controversie di lavoro che, come si sa, rappresenta il punto più delicato del cosiddetto collegato lavoro che ha meritato le censure del capo dello Stato e il conseguente rinvio alle camere. Il problema, si ricorda, è questo: secondo il testo del collegato lavoro sarebbe possibile già nella lettera di assunzione inserire una clausola per la quale il lavoratore si obbliga a non portare davanti al giudice, ma davanti ad un collegio arbitrale, le controversie che dovessero insorgere in futuro con il datore di lavoro, con la possibilità ulteriore che il collegio arbitrale decida non in base al diritto, ma in base all’equità e dunque anche derogando a norme di tutela del lavoro che dovrebbero, invece, essere inderogabili.
L’unica ridicola garanzia della effettiva volontà del lavoratore di assumere una simile decisione suicida era, secondo il testo originale del collegato, che la clausola compromissoria sarebbe dovuta passare da una commissione di certificazione la quale avrebbe dovuto accertarsi della reale volontà del lavoratore. Il capo dello Stato stesso ha notato che al momento dell’assunzione il lavoratore è debolissimo, nel senso che pur di reperire un’occupazione firmerebbe qualsiasi cosa e dichiarerebbe sicuramente di essere ben contento di privarsi della possibilità di ricorso al giudice ordinario e della garanzia delle norme inderogabili.
Si è osservato ironicamente che anche quando si monacavano a forza le figlie delle famiglie patrizie il vescovo chiedeva sempre se erano contente di prendere i voti e la risposta era invariabilmente positiva.
Dopo l’importante intervento del capo dello Stato si è cercato da parte della maggioranza e dei sindacati “collaborativi” di apprestare un qualche rimedio che consisterebbe nella previsione che la clausola compromissoria potrebbe essere stipulata non al momento dell’assunzione, ma solo una volta superato il periodo di prova o, se il periodo di prova non è previsto, dopo 30 giorni dall’inizio del rapporto di lavoro. E’ chiaro che si tratta di un rimedio che non rimedia nulla, sia perché una buona metà dei lavoratori italiani non gode dell’articolo 18 e dunque anche una volta trascorso il periodo di prova la situazione di sudditanza psicologica verso il datore di lavoro rimane per loro invariata, sia perché anche per gli altri, è davvero incredibile che non appena superato il periodo di prova il lavoratore cominci a opporre al datore di lavoro un rifiuto in relazione, ad eventualità solo future, perché ciò significherebbe sicuramente “compromettere” il clima senza un interesse concreto.
L’emendamento proposto dall’ex ministro Damiano tocca invece il cuore del problema e lo risolve perché afferma che la commissione deve appurare la volontà del lavoratore di andare o no dall’arbitro invece che dal giudice, solo dopo che la controversia è effettivamente insorta. Il che dal punto di vista tecnico significa che non si deve più parlare di clausola compromissoria bensì di compromesso, ossia di accordo per affidare la decisione all’arbitro, raggiunto dalle parti volta per volta, ma dopo e non prima che la controversia sia nata. Il che ovviamente garantisce piena libertà della scelta. E’ curioso che un certo numero di giuristi e avvocati del lavoro, infinitamente minore però di quello che ha recentemente sottoscritto un appello per una coerente traduzione in norma dei rilievi del capo dello Stato, abbia cercato di appoggiare il testo del collegato lavoro insufficientemente corretto dal governo nel modo che si è detto.
Gli stessi dichiarano di credere che l’arbitrato possa rappresentare un adeguato strumento aggiuntivo per la giustizia del lavoro, ma ciò non sarà mai vero finché non vi sarà una reale libertà del lavoratore. Cosa possibile solo se all’arbitrato si arriva dopo che è sorta la lite come previsto dall’emendamento Damiano, oppure con una clausola compromissoria unilaterale, che cioè consenta al solo contraente debole, ossia il lavoratore, di scegliere comunque, all’occorrenza, se andare dall’arbitro o dal giudice, così come suggerito dall’appello sottoscritto da centinaia di giuristi. Si tratta ora di riprendere il discorso davvero e di approfondirlo non solo sul punto dell’arbitrato che è comunque essenziale, ma anche sul precariato (articolo 32 del collegato) e sulle cosiddette clausole generali (articolo 30) temi non meno importati e gravi.
Bisogna sottolineare che una volta tanto sul tema del lavoro, si comincia a distinguere la destra dalla sinistra.

di Piergiovanni Alleva
Fonte: http://www.liberazione.it