Di nuovo, considerate di nuovoNei ghetti d'Italia questo non è un uomo.(Adriano Sofri)
Se questo è un uomo,
Come un rospo a gennaio,
Che si avvia quando è buio e nebbia
E torna quando è nebbia e buio,
Che stramazza a un ciglio di strada,
Odora di kiwi e arance di Natale,
Conosce tre lingue e non ne parla nessuna,
Che contende ai topi la sua cena,
Che ha due ciabatte di scorta,
Una domanda d´asilo,
Una laurea in ingegneria, una fotografia,
E le nasconde sotto i cartoni,
E dorme sui cartoni della Rognetta,
Sotto un tetto d´amianto,
O senza tetto,
Fa il fuoco con la monnezza,
Che se ne sta al posto suo,
In nessun posto,
E se ne sbuca, dopo il tiro a segno,
“Ha sbagliato!”,
Certo che ha sbagliato,
L´Uomo Nero
Della miseria nera,
Del lavoro nero, e da Milano,
Per l´elemosina di un´attenuante
Scrivono grande: NEGRO,
Scartato da un caporale,
Sputato da un povero cristo locale,
Picchiato dai suoi padroni,
Braccato dai loro cani,
Che invidia i vostri cani,
Che invidia la galera
(Un buon posto per impiccarsi)
Che piscia coi cani,
Che azzanna i cani senza padrone,
Che vive tra un No e un No,
Tra un Comune commissariato per mafia
E un Centro di Ultima Accoglienza,
E quando muore, una colletta
Dei suoi fratelli a un euro all´ora
Lo rimanda oltre il mare, oltre il deserto
Alla sua terra - “A quel paese!”
Meditate che questo è stato,
Che questo è ora,
Che Stato è questo,
Rileggete i vostri saggetti sul Problema
Voi che adottate a distanza
Di sicurezza, in Congo, in Guatemala,
E scrivete al calduccio, né di qua né di là,
Né bontà, roba da Caritas, né
Brutalità, roba da affari interni,
Tiepidi, come una berretta da notte,
E distogliete gli occhi da questa
Che non è una donna
Da questo che non è un uomo
Che non ha una donna
E i figli, se ha figli, sono distanti,
E pregate di nuovo che i vostri nati
Non torcano il viso da voi.
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lunedì 11 gennaio 2010
Nei ghetti d'Italia questo non è un uomo. (Adriano Sofri)
Etichette: società
domenica 22 marzo 2009
Paga gli operai per il volontariato."Pazza idea" di un imprenditore.
"Voglio che della mia azienda si parli bene". In fin dei conti sta tutta qua la decisione di Davide Canavesio, classe 1971, amministratore delegato della Saet, azienda torinese impegnata nella progettazione di impianti su misura per il trattamento termico a induzione, di liberare il lavoro e convertirlo, in una piccola quota, in una azione di volontariato. Ciascuno dei 250 dipendenti della filiale italiana (secondo stabilimento in India) ha cinque ore di permesso mensile, tre delle quali retribuite dall'azienda. Permesso utilizzabile e scaricabile dal monte ore. Spendibile però solo come un voucher sociale. Quel tempo si può utilizzare per destinarlo in due progetti di sostegno sociale: il primo rivolto ai bambini down; il secondo alle famiglie in difficoltà. "La mia azienda segna un più nel suo fatturato e anche quest'anno avremo le nostre soddisfazioni. La crisi non l'avvertiamo, di cassa integrazione non se ne parla. Perciò mi son detto: ecco, questo è il momento di fare una cosa strana".
Canavesio è giovane e indubitabilmente ottimista: "Quando lavoravo a Londra ho avuto modo di seguire alcune attività sociali supportate dall'azienda. Ho sempre apprezzato questo tipo di impegno, poiché l'età media di chi pratica volontariato è tendenzialmente al di sotto dei 25 anni, e al di sopra dei 60. Quando lavori e magari hai anche una casa e una famiglia di cui occuparti, è impossibile trovare il tempo per fare altro. E allora, ecco: un po' di tempo te lo regalo io. Esci prima dalla fabbrica a patto che non te ne torni subito a casa. La sfida è stata proprio quella di introdurre questo progetto innovativo rischiando di essere frainteso da dipendenti e sindacati e di essere considerato pazzo. In effetti quando sono andato all'Unione industriali a illustrarlo hanno sgranato gli occhi: "Le costerà un sacco di soldi. E proprio adesso lei...". Proprio adesso, sì. Ero pronto a retribuire tutte e cinque le ore di lavoro dedicate al volontariato. Ma i sindacalisti mi hanno detto: "Lei ne paga tre; due le consegna al lavoratore. Sono disponibili e utilizzabili ma non vengono pagate. Così è più giusto ed anche più serio".
Così è stato. "Credo fermamente nella dimensione sociale dell'imprenditoria e in più voglio che le persone che lavorano in Saet siano orgogliose della loro azienda. Conto di recuperare la spesa aziendale per la retribuzione di tutte queste ore liberate e sottratte al lavoro con l'entusiasmo e la motivazione. Secondo me è una spesa utile. Di Saet se ne parlerà bene e io sarò felice".
Canavesio è giovane e indubitabilmente ottimista: "Quando lavoravo a Londra ho avuto modo di seguire alcune attività sociali supportate dall'azienda. Ho sempre apprezzato questo tipo di impegno, poiché l'età media di chi pratica volontariato è tendenzialmente al di sotto dei 25 anni, e al di sopra dei 60. Quando lavori e magari hai anche una casa e una famiglia di cui occuparti, è impossibile trovare il tempo per fare altro. E allora, ecco: un po' di tempo te lo regalo io. Esci prima dalla fabbrica a patto che non te ne torni subito a casa. La sfida è stata proprio quella di introdurre questo progetto innovativo rischiando di essere frainteso da dipendenti e sindacati e di essere considerato pazzo. In effetti quando sono andato all'Unione industriali a illustrarlo hanno sgranato gli occhi: "Le costerà un sacco di soldi. E proprio adesso lei...". Proprio adesso, sì. Ero pronto a retribuire tutte e cinque le ore di lavoro dedicate al volontariato. Ma i sindacalisti mi hanno detto: "Lei ne paga tre; due le consegna al lavoratore. Sono disponibili e utilizzabili ma non vengono pagate. Così è più giusto ed anche più serio".
Così è stato. "Credo fermamente nella dimensione sociale dell'imprenditoria e in più voglio che le persone che lavorano in Saet siano orgogliose della loro azienda. Conto di recuperare la spesa aziendale per la retribuzione di tutte queste ore liberate e sottratte al lavoro con l'entusiasmo e la motivazione. Secondo me è una spesa utile. Di Saet se ne parlerà bene e io sarò felice".
Fonte: http://www.repubblica.it
Etichette: società
sabato 7 marzo 2009
Crisi economica: assegno ai disoccupati, nel Lazio è legge
Mentre se ne discute a livello nazionale, la Regione Lazio gioca d’anticipo e vara la legge sul “Reddito minimo di cittadinanza”. Grazie al provvedimento approvato il 4 marzo scorso, infatti, i disoccupati, gli inoccupati e i precari che hanno un reddito inferiore a 8.000 euro annui riceveranno un sostegno di 530 euro al mese, oltre ad agevolazioni per servizi culturali e sportivi. “Siamo la prima grande regione italiana – ha detto il governatore Piero Marrazzo (centrosinistra) – che si dota di uno strumento fondamentale che non ha nulla a che fare con la vecchia logica assistenzialista. Portiamo un modello di tutela presente in tutti i paesi europei più avanzati: dalla Francia all’Austria, Belgio, Olanda fino ai Paesi scandinavi e anglosassoni”.
I REQUISITI La legge gode di una copertura finanziaria di 20 milioni di euro e dovrebbe interessare circa 20 mila persone per il 2009. Sarà poi compito della Giunta regionale individuare ogni anno i criteri che orienteranno la graduatoria di chi avrà diritto al reddito mensile. A usufruirne saranno in primo luogo le donne e i precari, che nel giro di qualche mese dovrebbero ricevere i primi assegni. Per ottenere i benefici si dovrà dimostrare di essere residenti nel Lazio da almeno 24 mesi al momento della presentazione della domanda, essere iscritti alle liste di collocamento dei Centri per l’impiego e avere un reddito personale imponibile non superiore a 8.000 euro.
L’OK DEI SINDACATI “È un importante passo avanti”, commentano Cgil, Cisl e Uil del Lazio: “Ora occorre che questa legge, fortemente voluta e sostenuta dal sindacato, venga tradotta in azione concreta con l’emanazione del regolamento attuativo, il cui iter chiediamo venga concluso in tempi rapidi”. I segretari regionali Claudio Di Berardino, Francesco Simeoni, Luigi Scardaone giudicano apprezzabile la scelta della Regione di assegnare ai Comuni un ruolo centrale nella attuazione della legge, “perché le amministrazioni comunali possono attivare un circuito virtuoso di solidarietà concreta nei confronti dei nuclei familiari più vulnerabili”. Il sindacato chiede poi che “parallelamente al reddito minimo garantito, la Regione rafforzi e implementi le politiche attive del lavoro, costruendo percorsi formativi e di riqualificazione professionale per disoccupati, inoccupati e precari che perdono il lavoro”. Per le tre sigle, infatti, il fine ultimo di ogni forma d’integrazione e sostegno al reddito “deve essere la prospettiva dell’inserimento lavorativo”.
I REQUISITI La legge gode di una copertura finanziaria di 20 milioni di euro e dovrebbe interessare circa 20 mila persone per il 2009. Sarà poi compito della Giunta regionale individuare ogni anno i criteri che orienteranno la graduatoria di chi avrà diritto al reddito mensile. A usufruirne saranno in primo luogo le donne e i precari, che nel giro di qualche mese dovrebbero ricevere i primi assegni. Per ottenere i benefici si dovrà dimostrare di essere residenti nel Lazio da almeno 24 mesi al momento della presentazione della domanda, essere iscritti alle liste di collocamento dei Centri per l’impiego e avere un reddito personale imponibile non superiore a 8.000 euro.
L’OK DEI SINDACATI “È un importante passo avanti”, commentano Cgil, Cisl e Uil del Lazio: “Ora occorre che questa legge, fortemente voluta e sostenuta dal sindacato, venga tradotta in azione concreta con l’emanazione del regolamento attuativo, il cui iter chiediamo venga concluso in tempi rapidi”. I segretari regionali Claudio Di Berardino, Francesco Simeoni, Luigi Scardaone giudicano apprezzabile la scelta della Regione di assegnare ai Comuni un ruolo centrale nella attuazione della legge, “perché le amministrazioni comunali possono attivare un circuito virtuoso di solidarietà concreta nei confronti dei nuclei familiari più vulnerabili”. Il sindacato chiede poi che “parallelamente al reddito minimo garantito, la Regione rafforzi e implementi le politiche attive del lavoro, costruendo percorsi formativi e di riqualificazione professionale per disoccupati, inoccupati e precari che perdono il lavoro”. Per le tre sigle, infatti, il fine ultimo di ogni forma d’integrazione e sostegno al reddito “deve essere la prospettiva dell’inserimento lavorativo”.
Fonte: http://www.rassegna.it
Etichette: crisi economica, società, Welfare
domenica 25 gennaio 2009
Per risolvere i problemi serve la serietà; per essere eletti, a volte, basta la demagogia
«A Roma le persone, soprattutto le donne, sono vittime di aggressioni. L'amministrazione di centrosinistra ignora il tema della sicurezza. Bisogna essere ferrei: se non si impone il principio della tolleranza zero questa città non si salva»
Gianni Alemanno, aprile 2008
Quasi un anno dopo....
Il ministro Maroni, e per quanto riguarda Roma il sindaco Alemanno, dovrebbero fare penitenza. Pagare un pegno. Insomma scusarsi pubblicamente. Hanno impostato le loro campagne elettorali sulla sicurezza e vedete che cosa accade. Da Lampedusa alle metropoli italiane dove si verificano furti, rapine e violenze e stupri con frequenza quotidiana.
Alemanno parla di sciacallaggio contro di lui; in realtà si tratta di notizie. Maroni si vanta dei grandi risultati ottenuti con il pattugliamento dell'Esercito. Ma dove, ma quando, ma come? Per merito dell'Esercito? Ma chi l'ha visto, l'Esercito? La De Filippi in trasmissione. Forse.
Eugenio Scalfari, gennaio 2009
Etichette: società
lunedì 19 gennaio 2009
Piccinini (Cgil): dai primi risultati la Social Card risulta un fallimento
Dai primi risultati della fase di avvio della Social Card si prefigura il fallimento, sul quale il governo farebbe bene a riflettere”.
È quanto afferma la segretaria confederale della Cgil, Morena Piccinini, ricordando come l’organizzazione sindacale “abbia ritenuto la Social Card uno strumento sbagliato, di valore insufficiente, utilizzabile solo da pochi rispetto ai tanti che vivono situazioni di povertà e che avrebbe comportato difficoltà
organizzative ai richiedenti e alti costi di impianto e di gestione”.
"Dopo questa prima fase di avvio della misura" - rileva la sindacalista della Cgil - “i risultati sono: un numero di richieste molto inferiore al numero dei beneficiari previsto, disfunzioni di tipo organizzativo che aumentano il disagio e la vergogna di chi sta utilizzando la carta, un uso della carta da parte di componenti di ordini religiosi che, seppure nullatenenti, non vivono gli stessi disagi e le tante difficoltà di altre categorie sociali”.
"Per questo" - osserva Piccinini - “il governo deve riflettere su questi primi risultati che prefigurano il fallimento della misura così come occorre, a giudizio della Cgil che il Governo apra un confronto, più volte richiesto unitariamente dal sindacato, per individuare interventi" - conclude - "che abbiano risorse e strumenti in grado di contrastare davvero la povertà”.
È quanto afferma la segretaria confederale della Cgil, Morena Piccinini, ricordando come l’organizzazione sindacale “abbia ritenuto la Social Card uno strumento sbagliato, di valore insufficiente, utilizzabile solo da pochi rispetto ai tanti che vivono situazioni di povertà e che avrebbe comportato difficoltà
organizzative ai richiedenti e alti costi di impianto e di gestione”.
"Dopo questa prima fase di avvio della misura" - rileva la sindacalista della Cgil - “i risultati sono: un numero di richieste molto inferiore al numero dei beneficiari previsto, disfunzioni di tipo organizzativo che aumentano il disagio e la vergogna di chi sta utilizzando la carta, un uso della carta da parte di componenti di ordini religiosi che, seppure nullatenenti, non vivono gli stessi disagi e le tante difficoltà di altre categorie sociali”.
"Per questo" - osserva Piccinini - “il governo deve riflettere su questi primi risultati che prefigurano il fallimento della misura così come occorre, a giudizio della Cgil che il Governo apra un confronto, più volte richiesto unitariamente dal sindacato, per individuare interventi" - conclude - "che abbiano risorse e strumenti in grado di contrastare davvero la povertà”.
Fonte: http://www.servizicgil.lombardia.it
Etichette: social card, società, Welfare
giovedì 15 gennaio 2009
La grande beffa della social card; una su tre è senza soldi.
Si dice: morire di vergogna. "Avevo il Dixan in mano, anche una confezione di orzo e una scatola di tonno ma mi è venuto un presentimento: vuoi vedere che non funziona? Allora ho preso la tessera e ho chiesto alla commessa di digitare i numeri, io non vedo bene. Non era stata caricata. Avevo i soldi stretti nell'altra mano, già tutti contati, e glieli ho dati e così è finita. Non l'ho più usata". Maria Pia, 67 anni, è fuggita via dal supermercato di Viareggio rossa in viso, e meno male che non c'era nessuno in fila. Comunque in quel supermercato non ci tornerà più.
La tessera di Tremonti è di un bel azzurro sereno. Come il cielo di Forza Italia, quello di una volta. Un tricolore ondulato la attraversa da sinistra a destra e sembra la scia delle mitiche frecce. "E' anonima naturalmente per non creare imbarazzo", commentò Silvio Berlusconi il giorno dell'inaugurazione della campagna dei 40 euro mensili ai bisognosi d'Italia.
Anonima. Infatti ieri, supermercato Sma di Roma, commessa indaffarata alla cassa, signore anziano in fila: "Ha per caso la social card?". Il no è asciutto e risentito. "Scusi, ma era per capire come pagava".
Lusy Montemarian non ha pagato, anzi è scoppiata in un pianto dirotto quando le hanno comunicato, come fa il medico alla famiglia del congiunto morente, che non ce l'aveva fatta. Un pianto raccolto da una microtelecamera di "Mi manda Raitre" e unito ad altri pietosi casi. Un mattone sull'altro, e un altro ancora. Alla fine si edifica questo incredibile muro della vergogna che attraversa la penisola e la trafigge senza colpa. La Social Card, il circuito Mastercard. Protagonisti di una favola. Una strisciata e via. La pensionata indigente che alla cassa del panificio, come la donna chic di via Condotti, apre il borsello, non tocca i soldi sporchi, ma sfila la carta di credito. Un secondo magnetico. Se la carta è piena. Se è vuota - e lo sono un terzo delle circa 500 mila distribuite - la pensionata deve restituire il pane e ritirare l'umiliazione pubblica.
Era il 19 giugno, era estate, e il ministro Giulio Tremonti annunciava una vecchia novità: la carta di credito per i poveri. Vecchia perché l'aveva pensata Vincenzo Visco, nell'arcaico '97: sconti sulla spesa, sugli affitti, sui beni di prima necessità. Vecchia perché l'aveva apprezzata Ermanno Gorrieri, comandate partigiano, fondatore del movimento Cristiano Sociali. Gorrieri è morto nel 2004. Nel 2008 è Tremonti a presenziare e presentare la svolta: una manovrina da 450 milioni di euro, 200 coperti dall'Eni, 50 dall'Enel, altri dalla Robin Tax. Togliere ai ricchi, dare ai poveri: 40 euro al mese, 80 euro accreditati ogni due mesi. Per un anno intero. Quattro mesi di annunci, di serrata organizzazione. Pronti. Si parte il primo dicembre. Attenzione: chi conserva 15 mila euro, in banca o alla posta, pensionato o disoccupato, non ha diritto alla carta di credito dello Stato.
Sono in 520 mila a dicembre a chiedere la social card, pensionati con reddito dai 6 mila euro agli 8 mila, coppie di anziani, famiglie con figli a carico, non oltre i tre anni però. Con una sola casa di proprietà, un'automobile e un'utenza elettrica attiva. In fila, per ore, davanti ai 9 mila uffici postali. Perché chi completava le pratiche entro il 31 dicembre, aveva diritto a 120 euro (ottobre, novembre e appunto dicembre) di partenza. Una corsa verso il nulla. Perché il 30 dicembre, con ottimismo natalizio, l'Inps - che doveva accertare il reddito - dichiarava di aver ricaricato 330 mila tessere. Le altre erano vuote.
Migliaia di italiani si sono ritrovati in mano una patacca. Una carta azzurra, di plastica, con il retro magnetico, il numero, il logo giallo e rosso della Mastercard. Belle, eccome. E di valore: si stima costi almeno 50 centesimi l'una, più 1 euro per la ricarica bimestrale, più il 2 per cento per le spese del circuito bancario. Uno scherzetto da 8 milioni e 500mila di euro, a pieno regime. Una lotteria per il mezzo milione di italiani che, soltanto alla cassa e davanti al commesso, saprà se la sua carta annonaria è buona oppure è uno scherzo del destino, se può permettere di fare la spese oppure di annunciare la propria povertà a tutti.
Duecentomila tessere vagano scoperte di tasca in tasca, sospese o respinte. Duecentomila italiani, forse di più, le possiedono senza poterle utilizzare. Alcuni (pochi) lo sanno. Altri, molti altri, che non sanno, vanno incontro alla sciagura.
Ci vuole del metodo per ideare una così lunga e inutile fatica. Prima fila: farsi certificare la povertà, la disgrazia assoluta. Seimila euro all'anno. In fila, naturalmente per vedersi attestata dal patronato la sospirata povertà. Poi l'Inps, le Poste, sempre in fila, sempre allo stesso modo. Infine, coraggio, andare al supermercato ed esibirla questa maledetta povertà. E poi, duecentomila volte finora, vederla svergognata: "La tessera non è carica". Ma ha letto bene?
Per la social card un poveretto di Catania è ricoverato (coma farmacologico) in ospedale a seguito di furiosa lite, recita un dispaccio dell'Ansa del 3 gennaio scorso, generata "dalla discussione per l'ottenimento della social card". Giovanni Spatola, imbianchino di 47 anni, si è costituito ai carabinieri confessando di aver fracassato il cranio del conoscente con una chiave inglese. Chi dei due doveva ottenere la social card? A Verona boom di ritiri. Il dato, riferisce la direzione delle Poste, è connesso alla presenza nel luogo di molti istituti religiosi. Trecento tra suore e frati si sono presentati all'incasso. Nullatenenti. Perciò potevano. A Castelletto di Brenzone, minuscolo villaggio sul lago di Garda, ne sono state elargite più di cinquanta. Come mai? Lì ha sede l'istituto delle piccole suore della Sacra Famiglia. Amen.
"Disagi e umiliazioni di ogni genere. Accreditategli questi benedetti quaranta euro sulle pensioni, così risparmierete dei soldi anche voi", ha consigliato Pierluigi Bersani ieri alla Camera al ministro dell'Economia. "E' la truffa del secolo, un flop, il più grande bluff tremontiano", dice Franco Laratta, il deputato calabrese del Partito democratico mentre raccoglie le firme per un'interpellanza urgente sulla precoce agonia di questa tesserina azzurrissima, molto patriottica con quel fascio tricolore.
La tessera di Tremonti è di un bel azzurro sereno. Come il cielo di Forza Italia, quello di una volta. Un tricolore ondulato la attraversa da sinistra a destra e sembra la scia delle mitiche frecce. "E' anonima naturalmente per non creare imbarazzo", commentò Silvio Berlusconi il giorno dell'inaugurazione della campagna dei 40 euro mensili ai bisognosi d'Italia.
Anonima. Infatti ieri, supermercato Sma di Roma, commessa indaffarata alla cassa, signore anziano in fila: "Ha per caso la social card?". Il no è asciutto e risentito. "Scusi, ma era per capire come pagava".
Lusy Montemarian non ha pagato, anzi è scoppiata in un pianto dirotto quando le hanno comunicato, come fa il medico alla famiglia del congiunto morente, che non ce l'aveva fatta. Un pianto raccolto da una microtelecamera di "Mi manda Raitre" e unito ad altri pietosi casi. Un mattone sull'altro, e un altro ancora. Alla fine si edifica questo incredibile muro della vergogna che attraversa la penisola e la trafigge senza colpa. La Social Card, il circuito Mastercard. Protagonisti di una favola. Una strisciata e via. La pensionata indigente che alla cassa del panificio, come la donna chic di via Condotti, apre il borsello, non tocca i soldi sporchi, ma sfila la carta di credito. Un secondo magnetico. Se la carta è piena. Se è vuota - e lo sono un terzo delle circa 500 mila distribuite - la pensionata deve restituire il pane e ritirare l'umiliazione pubblica.
Era il 19 giugno, era estate, e il ministro Giulio Tremonti annunciava una vecchia novità: la carta di credito per i poveri. Vecchia perché l'aveva pensata Vincenzo Visco, nell'arcaico '97: sconti sulla spesa, sugli affitti, sui beni di prima necessità. Vecchia perché l'aveva apprezzata Ermanno Gorrieri, comandate partigiano, fondatore del movimento Cristiano Sociali. Gorrieri è morto nel 2004. Nel 2008 è Tremonti a presenziare e presentare la svolta: una manovrina da 450 milioni di euro, 200 coperti dall'Eni, 50 dall'Enel, altri dalla Robin Tax. Togliere ai ricchi, dare ai poveri: 40 euro al mese, 80 euro accreditati ogni due mesi. Per un anno intero. Quattro mesi di annunci, di serrata organizzazione. Pronti. Si parte il primo dicembre. Attenzione: chi conserva 15 mila euro, in banca o alla posta, pensionato o disoccupato, non ha diritto alla carta di credito dello Stato.
Sono in 520 mila a dicembre a chiedere la social card, pensionati con reddito dai 6 mila euro agli 8 mila, coppie di anziani, famiglie con figli a carico, non oltre i tre anni però. Con una sola casa di proprietà, un'automobile e un'utenza elettrica attiva. In fila, per ore, davanti ai 9 mila uffici postali. Perché chi completava le pratiche entro il 31 dicembre, aveva diritto a 120 euro (ottobre, novembre e appunto dicembre) di partenza. Una corsa verso il nulla. Perché il 30 dicembre, con ottimismo natalizio, l'Inps - che doveva accertare il reddito - dichiarava di aver ricaricato 330 mila tessere. Le altre erano vuote.
Migliaia di italiani si sono ritrovati in mano una patacca. Una carta azzurra, di plastica, con il retro magnetico, il numero, il logo giallo e rosso della Mastercard. Belle, eccome. E di valore: si stima costi almeno 50 centesimi l'una, più 1 euro per la ricarica bimestrale, più il 2 per cento per le spese del circuito bancario. Uno scherzetto da 8 milioni e 500mila di euro, a pieno regime. Una lotteria per il mezzo milione di italiani che, soltanto alla cassa e davanti al commesso, saprà se la sua carta annonaria è buona oppure è uno scherzo del destino, se può permettere di fare la spese oppure di annunciare la propria povertà a tutti.
Duecentomila tessere vagano scoperte di tasca in tasca, sospese o respinte. Duecentomila italiani, forse di più, le possiedono senza poterle utilizzare. Alcuni (pochi) lo sanno. Altri, molti altri, che non sanno, vanno incontro alla sciagura.
Ci vuole del metodo per ideare una così lunga e inutile fatica. Prima fila: farsi certificare la povertà, la disgrazia assoluta. Seimila euro all'anno. In fila, naturalmente per vedersi attestata dal patronato la sospirata povertà. Poi l'Inps, le Poste, sempre in fila, sempre allo stesso modo. Infine, coraggio, andare al supermercato ed esibirla questa maledetta povertà. E poi, duecentomila volte finora, vederla svergognata: "La tessera non è carica". Ma ha letto bene?
Per la social card un poveretto di Catania è ricoverato (coma farmacologico) in ospedale a seguito di furiosa lite, recita un dispaccio dell'Ansa del 3 gennaio scorso, generata "dalla discussione per l'ottenimento della social card". Giovanni Spatola, imbianchino di 47 anni, si è costituito ai carabinieri confessando di aver fracassato il cranio del conoscente con una chiave inglese. Chi dei due doveva ottenere la social card? A Verona boom di ritiri. Il dato, riferisce la direzione delle Poste, è connesso alla presenza nel luogo di molti istituti religiosi. Trecento tra suore e frati si sono presentati all'incasso. Nullatenenti. Perciò potevano. A Castelletto di Brenzone, minuscolo villaggio sul lago di Garda, ne sono state elargite più di cinquanta. Come mai? Lì ha sede l'istituto delle piccole suore della Sacra Famiglia. Amen.
"Disagi e umiliazioni di ogni genere. Accreditategli questi benedetti quaranta euro sulle pensioni, così risparmierete dei soldi anche voi", ha consigliato Pierluigi Bersani ieri alla Camera al ministro dell'Economia. "E' la truffa del secolo, un flop, il più grande bluff tremontiano", dice Franco Laratta, il deputato calabrese del Partito democratico mentre raccoglie le firme per un'interpellanza urgente sulla precoce agonia di questa tesserina azzurrissima, molto patriottica con quel fascio tricolore.
di Antonello Caporale
Fonte: http://www.repubblica.it
Etichette: social card, società, Welfare
lunedì 10 novembre 2008
La controriforma della scuola
LA CONTRORIFORMA DELLA SCUOLA
Meno ore di studio
Meno materie
Meno classi
Meno maestriE LA CHIAMANO RIFORMA !!!
Conoscete i contenuti dei decreti Brunetta e Gelmini?
La mistificazione di televisione e stampa è che non ci sarà più quel grande spreco di 2 maestri per classe (ma i due maestri non sono MAI contemporaneamente in classe !!!) e i bambini non dovranno più passare tante ore a scuola (e dove saranno MENTRE PADRI E MADRI SONO AL LAVORO???). Lasciamo poi perdere i grembiulini e altre sciocchezze….
La riforma riguarda tutti gli ordini di scuole, iniziamo con i più piccoli.
La scuola primaria italiana è all’avanguardia in Europa. (Fonte Ocse)
Oggi, rispetto ai tempi del maestro unico, sono aumentati i contenuti (inglese, informatica, educazione al suono e alla musica, educazione alimentare, educazione ambientale, educazione stradale, educazione motoria). L’obiettivo della scuola di oggi infatti non è quello che i bambini imparino delle nozioni a memoria o facciano i “bastoncelli”, ma che i bambini imparino a “leggere” la realtà, a farsi delle domande e sapersi dare le risposte, per poter imparare ad affrontare le complessità del mondo moderno.
I programmi della scuola dell’infanzia e della scuola primaria saranno essenzializzati (Traduzione: la scuola dell’infanzia tornerà ad essere un parcheggio per i bambini in età prescolare come era fino agli anni ‘70, e alla scuola primaria si tornerà a studiare solo italiano, matematica, storia e geografia).
Per quanto riguarda la scuola dell’infanzia a partire dal 2009 sono previste delle classi con orario solo al mattino, con una sola maestra, il numero massimo di alunni per classe viene portato a 30 e sarà possibile iscrivere i figli alla scuola dell’infanzia a partire dai 2 anni di età.
Quindi una sola maestra potrebbe gestire 30 bambini, anche di 2 anni!!!!!
Per la scuola primaria si torna al maestro unico che insegna tutte le materie e l’orario è ridotto a 24 ore settimanali.
Attualmente l’orario è solitamente di 30-40 ore settimanali a seconda che la scuola faccia il tempo pieno o i moduli.
Dal 2009 l’assegnazione dei docenti alle scuole da parte del provveditorato verrà fatta in base al numero degli alunni iscritti e non più in base alle richieste ed alle esigenze delle famiglie all’atto dell’iscrizione.
Il numero massimo di alunni per classe passa da 25 a 30,
Il precedente governo Berlusconi era già passato da 21 a 25 !!!!
Insegnamento dell’inglese: oggi l’insegnamento dell’inglese è affidato ad uno dei maestri della classe, (se uno dei maestri ha la specializzazione in inglese), oppure ad un insegnante specialista. Il decreto prevede di eliminare 11.200 specialisti di inglese incaricando il maestro unico anche dell’insegnamento dell’inglese tramite un corso di 150 ore!!!
Insegnanti di sostegno: il numero di insegnanti di sostegno viene “congelato” ed è pari a quello relativo all’anno scolastico 06/07 e anche se dovesse aumentare il numero di alunni diversamente abili il numero di insegnanti di sostegno potrà nel tempo solo diminuire.
La riforma riguarda tutti gli ordini di scuole, iniziamo con i più piccoli.
COME FUNZIONA LA SCUOLA OGGI
La scuola primaria italiana è all’avanguardia in Europa. (Fonte Ocse)
Oggi, rispetto ai tempi del maestro unico, sono aumentati i contenuti (inglese, informatica, educazione al suono e alla musica, educazione alimentare, educazione ambientale, educazione stradale, educazione motoria). L’obiettivo della scuola di oggi infatti non è quello che i bambini imparino delle nozioni a memoria o facciano i “bastoncelli”, ma che i bambini imparino a “leggere” la realtà, a farsi delle domande e sapersi dare le risposte, per poter imparare ad affrontare le complessità del mondo moderno.
Come sarà la scuola del governo Berlusconi dal 2009
I programmi della scuola dell’infanzia e della scuola primaria saranno essenzializzati (Traduzione: la scuola dell’infanzia tornerà ad essere un parcheggio per i bambini in età prescolare come era fino agli anni ‘70, e alla scuola primaria si tornerà a studiare solo italiano, matematica, storia e geografia).
Scuola dell’infanzia (Asili e Materne)
Per quanto riguarda la scuola dell’infanzia a partire dal 2009 sono previste delle classi con orario solo al mattino, con una sola maestra, il numero massimo di alunni per classe viene portato a 30 e sarà possibile iscrivere i figli alla scuola dell’infanzia a partire dai 2 anni di età.
Quindi una sola maestra potrebbe gestire 30 bambini, anche di 2 anni!!!!!
Scuola primaria: (Elementari)
Per la scuola primaria si torna al maestro unico che insegna tutte le materie e l’orario è ridotto a 24 ore settimanali.
Attualmente l’orario è solitamente di 30-40 ore settimanali a seconda che la scuola faccia il tempo pieno o i moduli.
Dal 2009 l’assegnazione dei docenti alle scuole da parte del provveditorato verrà fatta in base al numero degli alunni iscritti e non più in base alle richieste ed alle esigenze delle famiglie all’atto dell’iscrizione.
Il numero massimo di alunni per classe passa da 25 a 30,
Il precedente governo Berlusconi era già passato da 21 a 25 !!!!
Insegnamento dell’inglese: oggi l’insegnamento dell’inglese è affidato ad uno dei maestri della classe, (se uno dei maestri ha la specializzazione in inglese), oppure ad un insegnante specialista. Il decreto prevede di eliminare 11.200 specialisti di inglese incaricando il maestro unico anche dell’insegnamento dell’inglese tramite un corso di 150 ore!!!
Insegnanti di sostegno: il numero di insegnanti di sostegno viene “congelato” ed è pari a quello relativo all’anno scolastico 06/07 e anche se dovesse aumentare il numero di alunni diversamente abili il numero di insegnanti di sostegno potrà nel tempo solo diminuire.
Inoltre, 130.000 posti di lavoro in meno nelle scuole!!!
Roma, 31 ottobre 2008 SLC CGIL ROMA E LAZIO
CGIL, sempre dalla Tua parte.
CGIL, sempre dalla Tua parte.
sabato 8 novembre 2008
Le bugie del ministro Gelmini
Ovvero, quando la realtà è molto diversa da quella che vorrebbe far credere il Ministro
• La spesa è fuori controllo
Non è vero! In questi anni la spesa per la scuola è costantemente diminuita. Dati MPI dicono che negli anni '90 era il 3,9-4,0% del PIL, ora è del 2,8% del PIL
• Aumentano i docenti, diminuiscono i bambini
Non è vero! Dall'anno scolastico 2001/02 fino all'anno scolastico 2007/08 gli alunni sono costantemente cresciuti mentre i docenti sono calati del 4-5% (dati MPI)
• Il 97% della spesa per la scuola è destinata agli stipendi
Non è vero! La spesa per l'istruzione è composta da 42 mld dello stato, più 10 mld di regioni ed enti locali, in totale 52 mld. Per lo stipendio del personale si spendono 41 mld, che su 52 mld complessivi rappresentano il 78,8% del totale, una percentuale al disotto del 79%, che è la media europea.
• Vogliamo riqualificare la spesa per la scuola
Che cosa c'entra la riqualificazione con i tagli? Meno scuola, meno tempo, meno flessibilità, meno docenti, più moralismo bacchettone, meno educazione e più punizioni, non c'entrano nulla con la riqualificazione della scuola.
• I bambini hanno bisogno di un punto di riferimento, trascorrono troppo ore sui banchi
Hanno dunque sbagliato tutti, pedagogisti e insegnanti che hanno lavorato per decenni su una scuola elementare all'altezza dei tempi, più ricca e più vicina ai bisogni dei bambini e delle famiglie. Hanno sbagliato i bambini che amano la loro scuola, le famiglie che la difendono.
• Insegnanti che contestavano il ministro nel corso di un dibattito pubblico, sono stati costretti a rilasciare le proprie generalità
Uno Stato democratico prevede per i suoi cittadini la libertà di espressione, identificare chi esprime le proprie opinioni con strumenti democratici non solo rappresenta una pratica intimidatoria ma dà il segno concreto dell'incapacità al confronto.
• La scuola non è un ammortizzatore sociale, le persone che perdono il posto non sono un mio problema
No signor ministro, la perdita di 150.000 posti di lavoro, è un problema per ogni governo, lo dimostra la crisi Alitalia che, con la perdita di alcune migliaia di posti di lavoro, sta suscitando grande allarme e preoccupazione. Il destino delle persone non può essere affrontato con questa disinvoltura.
• "L'istruzione è pubblica sempre, anche quando è svolta dalle scuole paritarie. Abbiamo bisogno di liberare risorse per poter garantire la libertà di scelta alle famiglie."
E’ difficilmente contestabile che tutta l'operazione estiva (fra manovra economica e Decreto Legge di fine agosto) non sia altro che una gigantesca svendita del patrimonio pubblico, rappresentato dalla scuola statale, per finanziare le scuole private.
AFFERMAZIONI COMPLETAMENTE FALSE
• La spesa è fuori controllo
Non è vero! In questi anni la spesa per la scuola è costantemente diminuita. Dati MPI dicono che negli anni '90 era il 3,9-4,0% del PIL, ora è del 2,8% del PIL
• Aumentano i docenti, diminuiscono i bambini
Non è vero! Dall'anno scolastico 2001/02 fino all'anno scolastico 2007/08 gli alunni sono costantemente cresciuti mentre i docenti sono calati del 4-5% (dati MPI)
• Il 97% della spesa per la scuola è destinata agli stipendi
Non è vero! La spesa per l'istruzione è composta da 42 mld dello stato, più 10 mld di regioni ed enti locali, in totale 52 mld. Per lo stipendio del personale si spendono 41 mld, che su 52 mld complessivi rappresentano il 78,8% del totale, una percentuale al disotto del 79%, che è la media europea.
• Vogliamo riqualificare la spesa per la scuola
Che cosa c'entra la riqualificazione con i tagli? Meno scuola, meno tempo, meno flessibilità, meno docenti, più moralismo bacchettone, meno educazione e più punizioni, non c'entrano nulla con la riqualificazione della scuola.
LA SUPERFICIALITA'
• I bambini hanno bisogno di un punto di riferimento, trascorrono troppo ore sui banchi
Hanno dunque sbagliato tutti, pedagogisti e insegnanti che hanno lavorato per decenni su una scuola elementare all'altezza dei tempi, più ricca e più vicina ai bisogni dei bambini e delle famiglie. Hanno sbagliato i bambini che amano la loro scuola, le famiglie che la difendono.
L'ARROGANZA
• Insegnanti che contestavano il ministro nel corso di un dibattito pubblico, sono stati costretti a rilasciare le proprie generalità
Uno Stato democratico prevede per i suoi cittadini la libertà di espressione, identificare chi esprime le proprie opinioni con strumenti democratici non solo rappresenta una pratica intimidatoria ma dà il segno concreto dell'incapacità al confronto.
• La scuola non è un ammortizzatore sociale, le persone che perdono il posto non sono un mio problema
No signor ministro, la perdita di 150.000 posti di lavoro, è un problema per ogni governo, lo dimostra la crisi Alitalia che, con la perdita di alcune migliaia di posti di lavoro, sta suscitando grande allarme e preoccupazione. Il destino delle persone non può essere affrontato con questa disinvoltura.
I VERI PROPOSITI DEL MINISTRO
• "L'istruzione è pubblica sempre, anche quando è svolta dalle scuole paritarie. Abbiamo bisogno di liberare risorse per poter garantire la libertà di scelta alle famiglie."
E’ difficilmente contestabile che tutta l'operazione estiva (fra manovra economica e Decreto Legge di fine agosto) non sia altro che una gigantesca svendita del patrimonio pubblico, rappresentato dalla scuola statale, per finanziare le scuole private.
Roma 31 ottobre 2008
SLC CGIL ROMA E LAZIO
SLC CGIL ROMA E LAZIO
martedì 28 ottobre 2008
1978-2008, i trent'anni della legge 180
Trenta anni fa, nel maggio del 1978, veniva approvata la Legge 180, detta anche “Legge Basaglia”, dal nome del famoso psichiatra che la ispirò.
Gli Anni Sessanta del ‘900 sono stati gli anni dell’Antipsichiatria, il movimento scientifico e filosofico, che contestava alla radice l’idea che il disagio mentale fosse principalmente un disturbo organico. Secondo l’Antipsichiatria e Franco Basaglia il disagio mentale, invece, nasce – in individui predisposti e più vulnerabili – da situazioni di disadattamento ed emarginazione; la follia avrebbe dunque un’origine più sociale che individuale. Da questo punto di vista l’Antipsichiatria e la Legge 180 rientrano in pieno nel clima di un’epoca di critica generalizzata al sistema economico e sociale del tempo che tendeva ad annullare le proprie contraddizioni allontanandole e nascondendole in luoghi separati proprio come i manicomi.
La ragione per cui la Legge 180 è ancora famosa in tutto il mondo, nonostante sia stata duramente criticata, è la rivoluzionaria idea di chiudere i manicomi e di restituire dignità, diritti civili e costituzionali ai malati di mente che fino allora erano stati considerati soltanto soggetti pericolosi per sé e gli altri, incapaci di intendere e di volere. Secondo Franco Basaglia il manicomio non è un luogo di cura, bensì è anch’esso all’origine di quella follia che pretende di curare. Il “matto” non è tanto il portatore di un organo – il cervello – malato bensì un essere umano sofferente che soprattutto va ascoltato. Non si tratta più – come a lungo era stata la funzione della psichiatria - di “normalizzarlo” per renderlo docile e conformista membro della comunità; il malato è una persona, che mantiene i suoi pieni diritti civili. Con le parole dello stesso Basaglia: “un malato di mente entra in manicomio come persona per diventare una cosa, il malato, prima di tutto, è una persona, e come tale deve essere considerata e curata … Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone”.
Per maggiori informazioni sulla figura di Basaglia e sulla legge 180 visita la nostra pagina di approfondimento.
Gli Anni Sessanta del ‘900 sono stati gli anni dell’Antipsichiatria, il movimento scientifico e filosofico, che contestava alla radice l’idea che il disagio mentale fosse principalmente un disturbo organico. Secondo l’Antipsichiatria e Franco Basaglia il disagio mentale, invece, nasce – in individui predisposti e più vulnerabili – da situazioni di disadattamento ed emarginazione; la follia avrebbe dunque un’origine più sociale che individuale. Da questo punto di vista l’Antipsichiatria e la Legge 180 rientrano in pieno nel clima di un’epoca di critica generalizzata al sistema economico e sociale del tempo che tendeva ad annullare le proprie contraddizioni allontanandole e nascondendole in luoghi separati proprio come i manicomi.
La ragione per cui la Legge 180 è ancora famosa in tutto il mondo, nonostante sia stata duramente criticata, è la rivoluzionaria idea di chiudere i manicomi e di restituire dignità, diritti civili e costituzionali ai malati di mente che fino allora erano stati considerati soltanto soggetti pericolosi per sé e gli altri, incapaci di intendere e di volere. Secondo Franco Basaglia il manicomio non è un luogo di cura, bensì è anch’esso all’origine di quella follia che pretende di curare. Il “matto” non è tanto il portatore di un organo – il cervello – malato bensì un essere umano sofferente che soprattutto va ascoltato. Non si tratta più – come a lungo era stata la funzione della psichiatria - di “normalizzarlo” per renderlo docile e conformista membro della comunità; il malato è una persona, che mantiene i suoi pieni diritti civili. Con le parole dello stesso Basaglia: “un malato di mente entra in manicomio come persona per diventare una cosa, il malato, prima di tutto, è una persona, e come tale deve essere considerata e curata … Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone”.
Etichette: società
venerdì 17 ottobre 2008
Io cavia nel call center: cronaca di una vita precaria
Cronista assunto per una settimana come operatore per 4 euro l'ora
MILANO - Sono l'operatore 172. Ho risposto a un annuncio su Internet spedendo via e-mail il mio curriculum, e dopo il colloquio sono qui, con le cuffie in testa e il microfono che mi sfiora le labbra, a proporre a decine di titolari di partite Iva di lasciare Telecom e passare a Infostrada. Ho lavorato una settimana alla Mastercom, azienda di telemarketing e teleselling nella zona industriale di Assago, hinterland di Milano, un cubo di vetri a specchio e cemento a pochi passi dalla tangenziale Ovest, costola di un gruppo in espansione con nuove sedi a Roma e Benevento.
Dopo la selezione, ho trascorso giorni in azienda senza aver firmato nessun contratto. Ho visto i 1200 euro lordi assicurati dai selezionatori, al colloquio e nei primi due giorni di formazione, diventare 800 al mese lordi (appena 640 netti), mentre le provvigioni promesse si sono ridotte in ventiquattr'ore della metà. Ho conosciuto universitari che non ce la fanno a pagarsi gli studi, ragazzine appena diplomate reduci da altri call center, segretarie trentenni licenziate e sostituite da giovani con contratto da apprendista, laureati con titoli improvvisamente inutili. Tutti senza altra chance che essere qui.
Mi pagano 4 euro netti l'ora. Contratto di collaborazione occasionale per trenta giorni, poi a progetto. Otto ore al giorno - 4 e mezzo il part time - di fronte a un monitor che passa in automatico i dati degli abbonati Telecom da contattare. Promettono un mensile di 1200 euro e provvigioni di 20 (contratto Voce) e 25 euro (contratto con Adsl) per ogni nuovo cliente rubato alla concorrenza.
"Qualcuno qui guadagna più di me - spiega Massimo, il selezionatore, al colloquio -. La media dei contratti di ogni operatore è di 3,9 al giorno". Nessuno però spiega il trucco contabile: il calcolo dell'azienda è su 30 giorni lavorativi perché alla Mastercom si lavora dal lunedì al venerdì. Così trenta giorni, il loro "mensile", corrispondono a sei settimane. Un mese e mezzo. E i 1200 euro promessi diventano nella realtà 800 euro al mese. Lordi. Appena 640 netti. Pagati a 60 giorni. Una cifra che nessuno pronuncia mai, un equivoco che gli altri 16 ragazzi che entrano con me in azienda capiranno molto tardi.
Alla Mastercom il turnover di operatori è continuo: ogni lunedì entrano tra i dieci e i venti nuovi lavoratori, altrettanti abbandonano. Con me ci sono quattro ragazzi e 12 ragazze. Dai 19 anni di Antonella e Giovanna, appena uscite dalle superiori, ai 38 di Carla e agli "oltre 40" di Alessandra, che s'imbarazza a rivelare l'età e a dire che sta provando a riprendere a lavorare dopo nove anni, dopo un divorzio. Ci sono anche 4 stranieri: Frida che viene dal Ghana e Salomon dal Camerun, Betsy dall'Ecuador e Lidia dal Venezuela. Tutti ventenni, seconda generazione di famiglie arrivate in Italia quando loro erano bambini. Sono i nuovi italiani: scuole a Milano, ottimo italiano, ambizioni di un futuro diverso da quello dei genitori.
Molti arrivano dai call center di Monza, Cesano Boscone, Milano città, "dove si lavora 24 ore su 24, dal lunedì alla domenica, come robot". O da centri commerciali, ristoranti, locali nel cuore della movida milanese dove "una notte di lavoro, dalle 19 all'alba viene pagata 50 euro in nero a fine serata".
I primi due giorni di formazione - non retribuiti, anche se è a tutti gli effetti attività lavorativa che dev'essere pagata dal datore di lavoro - sono una full immersion di marketing e psicologia della vendita. Con qualche trucchetto per produrre di più. Uno riguarda il modem per Internet. "Si può noleggiare o acquistare - spiega chi ci istruisce - . Al telefono col cliente, abbassate la voce come se state rivelando un segreto poi sussurrate: "Guardi, glielo dico senza farmi sentire sennò mi licenziano. Lo compri, costa solo 17 euro, le conviene piuttosto che pagare 3 euro ogni mese. In realtà lo state fregando. Presto si romperà, e l'azienda non ha nessuna voglia di fare manutenzione".
Le ore passano tra simulazioni di telefonate, studio delle obiezioni che riceveremo, illustrazione dei contratti da proporre. "Dovete essere lo specchio dell'altro. Capire i desideri dell'acquirente, agire sulla parte emotiva - ci dicono - . Fare come scrive Pirandello. Cambiare ogni volta maschera. Se ci pensate, noi vendiamo sempre qualcosa: le idee, la nostra immagine, le nostre scelte".
Fino al mercoledì, terzo giorno di lavoro, nessuno vede un contratto. Così nel cortile nascono complicati dibattiti sullo stipendio, con i telefonini che si trasformano in calcolatrici. L'atrio all'ingresso è l'unico spazio all'aperto. È qui che si fa pausa per caffè e sigarette. Qualcuno dell'azienda ci vede e ci rassicura, almeno sulle provvigioni: "20 euro per contratto voce, 25 Adsl". Poi si passa in sala training e da mezzogiorno iniziamo a fare le prime telefonate. "Ricordate Full metal jacket? - dice Alex, il nostro team leader - Il soldato diceva "Il mio fucile è il mio migliore amico, è la mia vita. Senza il mio fucile io sono niente". Il nostro fucile sono le cuffie. Con loro dobbiamo saper colpire il bersaglio".
Con il nostro fucile, siamo operativi davanti ai pc senza aver firmato nulla. Come se paga, provvigioni e condizioni contrattuali fossero una variabile indipendente dal nostro lavoro. Ma ecco, due minuti prima della pausa pranzo, quando non vogliamo far altro che scappare a mangiare, arrivano i moduli per la firma. "È il contratto standard dei collaboratori occasionali" spiegano a chi si dilunga a leggere. Molti capiscono solo ora che i 1200 euro di stipendio coprono sei settimane di lavoro e non un mese. E che non è detto che le nostre provvigioni saranno di 20 e 25 euro: la terza pagina da firmare è un elenco indistinto di gettoni da 5 a 25 euro.
Per tutto il pomeriggio di mercoledì, le nostre telefonate raggiungono il segmento di clienti Telecom ULL (Unbundling local loop), quelli che sono rimasti sempre fedeli all'ex monopolista e a cui si propone il distacco totale dalla vecchia Sip. Poi, all'improvviso, giovedì, il nostro team leader blocca tutto. "Siete un gruppo molto affiatato, l'azienda vuole scommettere su di voi. Da ora chiamerete un'altra categoria di clienti".
Soddisfatto dei complimenti, tutto il gruppo - tranne tre che restano sui vecchi contratti - inizia a chiamare i "silenti", i clienti che ai tempi delle prime liberalizzazioni sono passati a Infostrada pur dovendo pagare doppio canone, e che per questo sono rimasti a Telecom. "Si tratta di convincerli a tornare", ci dicono. Partiamo con le telefonate ai Wrl (clienti fuori copertura). Per scoprire, soltanto il giorno dopo, che per questi contratti le provvigioni non sono di 18 e 25 euro ma 8 e 12 euro. Meno della metà. Nessuno ce lo dice. "Per ora è cosi" rispondono quando chiediamo spiegazioni. Ma nessuno ribatte.
E nessuno reagisce alle proteste delle persone a casa, alle offese e alle minacce di denuncia. Ci hanno insegnato che dobbiamo essere più forti delle difficoltà. Mi metto in contatto con un clic con ogni partita Iva che appare sul monitor. Da Bolzano a Siracusa, chiamo tappezzieri e pizzerie, parrucchieri e macellai, studi di architetti e avvocati, profumerie e scuole guida, imprese edili e meccanici.
"Oggi è la 14esima volta che ci chiama qualcuno" rispondono all'Oasi del capello di Broni, provincia di Pavia. "Siete ossessivi" dicono da un negozio di giocattoli di Potenza. "Bombardate dalla mattina alla sera" si sfoga un medico calabrese. Perché quando qualcuno non accetta la proposta, l'ordine non è di escluderlo dal database, ma di rimetterlo in circolo per essere richiamato tra poche ore o tra una settimana, a secondo della violenza della sua protesta. Il contrario di quanto stabilisce il Garante della privacy che dal dicembre 2006 obbliga i call center a "rispettare la volontà degli utenti di non essere più disturbati".
I miei colleghi che misurano ogni euro del loro lavoro, si accorgono così che non è tanto facile acquisire clienti. Anche se per giorni ci hanno ripetuto il numeretto magico di 3,9 contratti stipulati ogni giorno da ogni operatore. Tra mercoledì e venerdì facciamo tre contratti. Lunedì, ultimo giorno di lavoro, un paio. In fondo alla sala, sulla lavagna c'è il nome di ognuno di noi: in rosso c'è l'obiettivo che si è dato prima di partire, accanto uno smile per ogni contratto realizzato.
In queste sale non c'è il rito motivazionale che si vede in Tutta la vita davanti, il film di Paolo Virzì sul mondo dei call center, ma a ogni contratto concluso dai nuovi, c'è in sala training l'applauso dei colleghi. E così avviene nella sala grande se qualcuno raggiunge il numero di contratti per ottenere il bonus in busta paga. Un concetto ce l'hanno spiegato subito: serviamo solo se vendiamo. Perché la somma dei nostri contratti fa il risultato del team leader, i loro risultati sono il target della Mastercom col committente, Wind-Infostrada.
"Ma se l'azienda fissa gli obiettivi, mette a disposizione le sue strumentazioni e gestisce turni e assenze, si configura una posizione da lavoratore dipendente", spiega Davide Ferrario, del Nidil, il sindacato dei precari della Cgil. Dopo una settimana, il mio gruppo non esiste più. Eravamo in 17 il primo giorno, siamo rimasti in 5. L'ultimo contratto che vedo è di Luca, rimasto in sala training una settimana in più, mentre quelli arrivati con lui sono già nella sala grande. È stato 15 giorni in attesa di questo momento: contratto Adsl a una romena di 18 anni. A fine giornata, tira fuori il telefonino e immortala l'evento. Fa una foto alla lavagna col suo nome accanto al disegno di un visino sorridente.
Dopo la selezione, ho trascorso giorni in azienda senza aver firmato nessun contratto. Ho visto i 1200 euro lordi assicurati dai selezionatori, al colloquio e nei primi due giorni di formazione, diventare 800 al mese lordi (appena 640 netti), mentre le provvigioni promesse si sono ridotte in ventiquattr'ore della metà. Ho conosciuto universitari che non ce la fanno a pagarsi gli studi, ragazzine appena diplomate reduci da altri call center, segretarie trentenni licenziate e sostituite da giovani con contratto da apprendista, laureati con titoli improvvisamente inutili. Tutti senza altra chance che essere qui.
Mi pagano 4 euro netti l'ora. Contratto di collaborazione occasionale per trenta giorni, poi a progetto. Otto ore al giorno - 4 e mezzo il part time - di fronte a un monitor che passa in automatico i dati degli abbonati Telecom da contattare. Promettono un mensile di 1200 euro e provvigioni di 20 (contratto Voce) e 25 euro (contratto con Adsl) per ogni nuovo cliente rubato alla concorrenza.
"Qualcuno qui guadagna più di me - spiega Massimo, il selezionatore, al colloquio -. La media dei contratti di ogni operatore è di 3,9 al giorno". Nessuno però spiega il trucco contabile: il calcolo dell'azienda è su 30 giorni lavorativi perché alla Mastercom si lavora dal lunedì al venerdì. Così trenta giorni, il loro "mensile", corrispondono a sei settimane. Un mese e mezzo. E i 1200 euro promessi diventano nella realtà 800 euro al mese. Lordi. Appena 640 netti. Pagati a 60 giorni. Una cifra che nessuno pronuncia mai, un equivoco che gli altri 16 ragazzi che entrano con me in azienda capiranno molto tardi.
Alla Mastercom il turnover di operatori è continuo: ogni lunedì entrano tra i dieci e i venti nuovi lavoratori, altrettanti abbandonano. Con me ci sono quattro ragazzi e 12 ragazze. Dai 19 anni di Antonella e Giovanna, appena uscite dalle superiori, ai 38 di Carla e agli "oltre 40" di Alessandra, che s'imbarazza a rivelare l'età e a dire che sta provando a riprendere a lavorare dopo nove anni, dopo un divorzio. Ci sono anche 4 stranieri: Frida che viene dal Ghana e Salomon dal Camerun, Betsy dall'Ecuador e Lidia dal Venezuela. Tutti ventenni, seconda generazione di famiglie arrivate in Italia quando loro erano bambini. Sono i nuovi italiani: scuole a Milano, ottimo italiano, ambizioni di un futuro diverso da quello dei genitori.
Molti arrivano dai call center di Monza, Cesano Boscone, Milano città, "dove si lavora 24 ore su 24, dal lunedì alla domenica, come robot". O da centri commerciali, ristoranti, locali nel cuore della movida milanese dove "una notte di lavoro, dalle 19 all'alba viene pagata 50 euro in nero a fine serata".
I primi due giorni di formazione - non retribuiti, anche se è a tutti gli effetti attività lavorativa che dev'essere pagata dal datore di lavoro - sono una full immersion di marketing e psicologia della vendita. Con qualche trucchetto per produrre di più. Uno riguarda il modem per Internet. "Si può noleggiare o acquistare - spiega chi ci istruisce - . Al telefono col cliente, abbassate la voce come se state rivelando un segreto poi sussurrate: "Guardi, glielo dico senza farmi sentire sennò mi licenziano. Lo compri, costa solo 17 euro, le conviene piuttosto che pagare 3 euro ogni mese. In realtà lo state fregando. Presto si romperà, e l'azienda non ha nessuna voglia di fare manutenzione".
Le ore passano tra simulazioni di telefonate, studio delle obiezioni che riceveremo, illustrazione dei contratti da proporre. "Dovete essere lo specchio dell'altro. Capire i desideri dell'acquirente, agire sulla parte emotiva - ci dicono - . Fare come scrive Pirandello. Cambiare ogni volta maschera. Se ci pensate, noi vendiamo sempre qualcosa: le idee, la nostra immagine, le nostre scelte".
Fino al mercoledì, terzo giorno di lavoro, nessuno vede un contratto. Così nel cortile nascono complicati dibattiti sullo stipendio, con i telefonini che si trasformano in calcolatrici. L'atrio all'ingresso è l'unico spazio all'aperto. È qui che si fa pausa per caffè e sigarette. Qualcuno dell'azienda ci vede e ci rassicura, almeno sulle provvigioni: "20 euro per contratto voce, 25 Adsl". Poi si passa in sala training e da mezzogiorno iniziamo a fare le prime telefonate. "Ricordate Full metal jacket? - dice Alex, il nostro team leader - Il soldato diceva "Il mio fucile è il mio migliore amico, è la mia vita. Senza il mio fucile io sono niente". Il nostro fucile sono le cuffie. Con loro dobbiamo saper colpire il bersaglio".
Con il nostro fucile, siamo operativi davanti ai pc senza aver firmato nulla. Come se paga, provvigioni e condizioni contrattuali fossero una variabile indipendente dal nostro lavoro. Ma ecco, due minuti prima della pausa pranzo, quando non vogliamo far altro che scappare a mangiare, arrivano i moduli per la firma. "È il contratto standard dei collaboratori occasionali" spiegano a chi si dilunga a leggere. Molti capiscono solo ora che i 1200 euro di stipendio coprono sei settimane di lavoro e non un mese. E che non è detto che le nostre provvigioni saranno di 20 e 25 euro: la terza pagina da firmare è un elenco indistinto di gettoni da 5 a 25 euro.
Per tutto il pomeriggio di mercoledì, le nostre telefonate raggiungono il segmento di clienti Telecom ULL (Unbundling local loop), quelli che sono rimasti sempre fedeli all'ex monopolista e a cui si propone il distacco totale dalla vecchia Sip. Poi, all'improvviso, giovedì, il nostro team leader blocca tutto. "Siete un gruppo molto affiatato, l'azienda vuole scommettere su di voi. Da ora chiamerete un'altra categoria di clienti".
Soddisfatto dei complimenti, tutto il gruppo - tranne tre che restano sui vecchi contratti - inizia a chiamare i "silenti", i clienti che ai tempi delle prime liberalizzazioni sono passati a Infostrada pur dovendo pagare doppio canone, e che per questo sono rimasti a Telecom. "Si tratta di convincerli a tornare", ci dicono. Partiamo con le telefonate ai Wrl (clienti fuori copertura). Per scoprire, soltanto il giorno dopo, che per questi contratti le provvigioni non sono di 18 e 25 euro ma 8 e 12 euro. Meno della metà. Nessuno ce lo dice. "Per ora è cosi" rispondono quando chiediamo spiegazioni. Ma nessuno ribatte.
E nessuno reagisce alle proteste delle persone a casa, alle offese e alle minacce di denuncia. Ci hanno insegnato che dobbiamo essere più forti delle difficoltà. Mi metto in contatto con un clic con ogni partita Iva che appare sul monitor. Da Bolzano a Siracusa, chiamo tappezzieri e pizzerie, parrucchieri e macellai, studi di architetti e avvocati, profumerie e scuole guida, imprese edili e meccanici.
"Oggi è la 14esima volta che ci chiama qualcuno" rispondono all'Oasi del capello di Broni, provincia di Pavia. "Siete ossessivi" dicono da un negozio di giocattoli di Potenza. "Bombardate dalla mattina alla sera" si sfoga un medico calabrese. Perché quando qualcuno non accetta la proposta, l'ordine non è di escluderlo dal database, ma di rimetterlo in circolo per essere richiamato tra poche ore o tra una settimana, a secondo della violenza della sua protesta. Il contrario di quanto stabilisce il Garante della privacy che dal dicembre 2006 obbliga i call center a "rispettare la volontà degli utenti di non essere più disturbati".
I miei colleghi che misurano ogni euro del loro lavoro, si accorgono così che non è tanto facile acquisire clienti. Anche se per giorni ci hanno ripetuto il numeretto magico di 3,9 contratti stipulati ogni giorno da ogni operatore. Tra mercoledì e venerdì facciamo tre contratti. Lunedì, ultimo giorno di lavoro, un paio. In fondo alla sala, sulla lavagna c'è il nome di ognuno di noi: in rosso c'è l'obiettivo che si è dato prima di partire, accanto uno smile per ogni contratto realizzato.
In queste sale non c'è il rito motivazionale che si vede in Tutta la vita davanti, il film di Paolo Virzì sul mondo dei call center, ma a ogni contratto concluso dai nuovi, c'è in sala training l'applauso dei colleghi. E così avviene nella sala grande se qualcuno raggiunge il numero di contratti per ottenere il bonus in busta paga. Un concetto ce l'hanno spiegato subito: serviamo solo se vendiamo. Perché la somma dei nostri contratti fa il risultato del team leader, i loro risultati sono il target della Mastercom col committente, Wind-Infostrada.
"Ma se l'azienda fissa gli obiettivi, mette a disposizione le sue strumentazioni e gestisce turni e assenze, si configura una posizione da lavoratore dipendente", spiega Davide Ferrario, del Nidil, il sindacato dei precari della Cgil. Dopo una settimana, il mio gruppo non esiste più. Eravamo in 17 il primo giorno, siamo rimasti in 5. L'ultimo contratto che vedo è di Luca, rimasto in sala training una settimana in più, mentre quelli arrivati con lui sono già nella sala grande. È stato 15 giorni in attesa di questo momento: contratto Adsl a una romena di 18 anni. A fine giornata, tira fuori il telefonino e immortala l'evento. Fa una foto alla lavagna col suo nome accanto al disegno di un visino sorridente.
di SANDRO DE RICCARDIS
Fonte: http://www.repubblica.it
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giovedì 11 settembre 2008
Dopo tanto parlare di sicurezza, governo spiazzato dagli ultrà
DI QUESTO CALCIO POSSIAMO BENISSIMO FARE A MENO
Come ha scritto Claudio Magris, «è giusto punire le violenze di rapinatori e terroristi, ma occorre punire più duramente chi delinque in nome di una squadra di calcio, con l'aggravante dei motivi futili e abbietti».
Dopo le devastazioni e le violenze con cui i tifosi del Napoli hanno tenuto a battesimo, domenica 31 agosto, il nuovo campionato di calcio, mettendo a ferro e fuoco la stazione del capoluogo campano, si è deciso di proibire loro le trasferte. Buona decisione. Ma limitata e tardiva. Nel novembre 2007, dopo la domenica di follia, per la morte del tifoso laziale Gabriele Sandri, raggiunto da un colpo di pistola di un agente di polizia in un autogrill vicino ad Arezzo, l’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive aveva già proposto di vietare le trasferte di massa dei tifosi organizzati.
Passano i ministri, cambiano i Governi, ma gli ultrà godono della stessa impunità. Dopo ogni domenica di fuoco, ci ritroviamo a riascoltare i soliti proclami baldanzosi dei politici, cui però seguono flebili provvedimenti, scarcerazioni a tempo di record, condanne simboliche. Il calcio non si tocca! Con i suoi colossali interessi economici, è meglio blandirlo, coccolarlo, perdonarlo e... magari comprarlo: i tifosi sono tanti, e votano (non sono rom o extracomunitari!).
Nel febbraio dello scorso anno, all’indomani dell’uccisione dell’ispettore Raciti nel derby Catania-Palermo, il presidente della Lega calcio Matarrese, a chi invocava di bloccare il campionato o giocare a porte chiuse, aveva replicato: «Lo spettacolo deve continuare. Questa è un’industria tra le più importanti d’Italia, che paga i suoi prezzi». Ma può una società civile offrire al "dio calcio" morti, feriti, treni devastati e città messe a soqquadro?
A maggior ragione oggi, con un Governo che ha vinto le elezioni sulla sicurezza e fa della "tolleranza zero" la sua missione. Che stecca, però: davvero strano che si sia fatto sorprendere dai gravi fatti di Napoli! Sarà perché troppo impegnato a censire e schedare rom o a respingere gli immigrati, additati come "il pericolo numero 1" del Paese? Non sarebbe meglio per la sicurezza, contrastare più duramente la violenza che prospera impunita e tollerata attorno al calcio? Perché questa "zona franca"? Né si può essere forti e arroganti con i deboli (rom e immigrati), e pavidi e impotenti con chi tiene in scacco lo Stato e detta le sue leggi in vaste zone del Sud (vedi camorra, ’ndrangheta e mafia).
Eppure, i dati della stagione calcistica 2007-2008 sono pesanti: 144 incontri con incidenti, 161 feriti tra i tifosi, 200 tra le forze dell’ordine, 292 arresti, 999 denunce. Ma guai a chiamarla emergenza! Il giocattolo calcio non si tocca, neppure se il capitano della Nazionale campione del mondo, Fabio Cannavaro, dice: «Io oggi non porterei i miei figli in uno stadio italiano».
Per far apparire più sicure le nostre città ci si è inventato di tutto: dal censimento dei rom ai tremila soldati sparpagliati su tutto il territorio nazionale. Forse, sarebbe meglio se il volenteroso Maroni censisse questi violenti e incivili ultrà, e prendesse loro le impronte digitali. E arrivasse a sciogliere le tifoserie organizzate, anche se ciò può dispiacere ai padroni del "circo calcistico", tra i quali si nascondono complici, favoreggiatori e pavidi. Perché non andare a lezione da chi questi problemi li ha affrontati meglio di noi? In Inghilterra, ad esempio, gli hooligans sono stati ridotti a "merce da esportazione".
Infine, se si pensa che per gli immigrati la clandestinità sia un’aggravante, dovrebbe esserlo altrettanto la violenza per chi trasforma le manifestazioni sportive in guerriglia. Se il calcio è quello visto alla prima di campionato, possiamo benissimo farne a meno. Oltretutto, costi e stipendi dei calciatori (anche mediocri) sono ormai "immorali": un vero schiaffo alla povertà del Paese.
Come ha scritto Claudio Magris, «è giusto punire le violenze di rapinatori e terroristi, ma occorre punire più duramente chi delinque in nome di una squadra di calcio, con l'aggravante dei motivi futili e abbietti».
Dopo le devastazioni e le violenze con cui i tifosi del Napoli hanno tenuto a battesimo, domenica 31 agosto, il nuovo campionato di calcio, mettendo a ferro e fuoco la stazione del capoluogo campano, si è deciso di proibire loro le trasferte. Buona decisione. Ma limitata e tardiva. Nel novembre 2007, dopo la domenica di follia, per la morte del tifoso laziale Gabriele Sandri, raggiunto da un colpo di pistola di un agente di polizia in un autogrill vicino ad Arezzo, l’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive aveva già proposto di vietare le trasferte di massa dei tifosi organizzati.
Passano i ministri, cambiano i Governi, ma gli ultrà godono della stessa impunità. Dopo ogni domenica di fuoco, ci ritroviamo a riascoltare i soliti proclami baldanzosi dei politici, cui però seguono flebili provvedimenti, scarcerazioni a tempo di record, condanne simboliche. Il calcio non si tocca! Con i suoi colossali interessi economici, è meglio blandirlo, coccolarlo, perdonarlo e... magari comprarlo: i tifosi sono tanti, e votano (non sono rom o extracomunitari!).
Nel febbraio dello scorso anno, all’indomani dell’uccisione dell’ispettore Raciti nel derby Catania-Palermo, il presidente della Lega calcio Matarrese, a chi invocava di bloccare il campionato o giocare a porte chiuse, aveva replicato: «Lo spettacolo deve continuare. Questa è un’industria tra le più importanti d’Italia, che paga i suoi prezzi». Ma può una società civile offrire al "dio calcio" morti, feriti, treni devastati e città messe a soqquadro?
A maggior ragione oggi, con un Governo che ha vinto le elezioni sulla sicurezza e fa della "tolleranza zero" la sua missione. Che stecca, però: davvero strano che si sia fatto sorprendere dai gravi fatti di Napoli! Sarà perché troppo impegnato a censire e schedare rom o a respingere gli immigrati, additati come "il pericolo numero 1" del Paese? Non sarebbe meglio per la sicurezza, contrastare più duramente la violenza che prospera impunita e tollerata attorno al calcio? Perché questa "zona franca"? Né si può essere forti e arroganti con i deboli (rom e immigrati), e pavidi e impotenti con chi tiene in scacco lo Stato e detta le sue leggi in vaste zone del Sud (vedi camorra, ’ndrangheta e mafia).
Eppure, i dati della stagione calcistica 2007-2008 sono pesanti: 144 incontri con incidenti, 161 feriti tra i tifosi, 200 tra le forze dell’ordine, 292 arresti, 999 denunce. Ma guai a chiamarla emergenza! Il giocattolo calcio non si tocca, neppure se il capitano della Nazionale campione del mondo, Fabio Cannavaro, dice: «Io oggi non porterei i miei figli in uno stadio italiano».
Per far apparire più sicure le nostre città ci si è inventato di tutto: dal censimento dei rom ai tremila soldati sparpagliati su tutto il territorio nazionale. Forse, sarebbe meglio se il volenteroso Maroni censisse questi violenti e incivili ultrà, e prendesse loro le impronte digitali. E arrivasse a sciogliere le tifoserie organizzate, anche se ciò può dispiacere ai padroni del "circo calcistico", tra i quali si nascondono complici, favoreggiatori e pavidi. Perché non andare a lezione da chi questi problemi li ha affrontati meglio di noi? In Inghilterra, ad esempio, gli hooligans sono stati ridotti a "merce da esportazione".
Infine, se si pensa che per gli immigrati la clandestinità sia un’aggravante, dovrebbe esserlo altrettanto la violenza per chi trasforma le manifestazioni sportive in guerriglia. Se il calcio è quello visto alla prima di campionato, possiamo benissimo farne a meno. Oltretutto, costi e stipendi dei calciatori (anche mediocri) sono ormai "immorali": un vero schiaffo alla povertà del Paese.
Fonte: Famiglia Cristiana on line
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domenica 10 agosto 2008
Morti sul lavoro o sulle strade. Quelle vittime di serie B
Siamo una società insicura, tanto abituata a sentirsi tale da non farci neppure caso. Insicura per default. Abbiamo molte paure che tracimano in un unico bacino, nel quale si deposita un sentimento inquieto. Una paura di fondo. Che ci accompagna dovunque. Non ci lascia mai soli. Anche se non ne siamo consapevoli. Eppure non tutte le paure sono uguali, hanno la stessa dignità, la stessa audience e la stessa evidenza mediatica. Il medesimo impatto politico. Quando si parla di "paura", per esempio, oggi pensiamo immediatamente all'incolumità personale. E quando pensiamo alla incolumità personale pensiamo immediatamente alla criminalità, comune ed eccezionale, che ci minaccia dovunque. Da vicino. Noi, i nostri cari, le nostre abitazioni. Ladri, aggressori, violentatori, rapinatori, pedofili. Perlopiù, stranieri, immigrati e zingari. Gli "altri" per definizione. Siamo eterofobi. Temiamo di essere insidiati, che i nostri figli e i nostri familiari vengano aggrediti. Dagli altri. Per questo gran parte degli italiani guarda con favore all'impiego sul territorio di esercito, polizia, ronde padane e democratiche. Tutto quanto renda "visibile" la sorveglianza sulla nostra incolumità. Sulla nostra sicurezza. A prescindere dall'efficacia che realmente sono in grado di garantire. Preoccupano di meno, invece, altri rischi che incombono sulla nostra vita. E sulla nostra morte. Gli infortuni sul lavoro. Gli incidenti che avvengono sulla strada. Per non parlare di quelli domestici. I quali avvengono, cioè, tra le mura delle nostre abitazioni. Eventi tragici che ricevono, perlopiù, evidenza minore sui media. Salvo che in situazioni molto particolari. L'esplosione alla ThyssenKrupp, che ha provocato la morte di 7 operai. Oppure l'incidente (auto) stradale in cui, qualche giorno fa, sono decedute 7 persone presso Treviso. O, ancora, quello di cui è stato vittima Andrea Pininfarina. Imprenditore di grande qualità manageriale (e, ancor prima, umana), alla guida di una grande azienda legata all'industria dell'auto. Casi eccezionali, per le proporzioni dell'evento o per la specifica identità della vittima. Mentre, in generale, all'emozione del momento subentra, rapida, la rimozione. Un sentimento di sottile fastidio, non dichiarato e neppure ammesso. Quasi che quegli avvenimenti non ci coinvolgessero in modo diretto. Eppure, ogni giorno in Italia (dati Istat per ACI) si verificano oltre 600 incidenti che causano la morte di circa 15 persone e il ferimento di 800. Nel complesso, in media, ogni anno, sulle strade, decedono circa 5mila persone, mentre 300mila subiscono traumi e lesioni di diversa gravità. Quanto agli incidenti sul lavoro (fonte INAIL), provocano circa 1000 morti ogni anno. Nel 2008, fino ad oggi, oltre 400 persone sono morte di lavoro, mentre 11mila sono rimaste ferite o invalide. Come ha rammentato di recente il Censis, rispetto agli omicidi, i morti sul lavoro sono quasi il doppio e i decessi sulle strade otto volte di più. Tuttavia, il grado di visibilità offerto dai media è inverso rispetto alla misura di questi tipi di episodi. Non c'è paragone. Vuoi mettere i delitti di Cogne e Perugia? La tragica aggressione avvenuta nel quartiere romano della Storta? Fa eccezione la saga delle "morti del sabato sera". Un serial che si ripete, perché evoca altri scenari, più attraenti. La gioventù bruciata dai rave tossici consumati nelle discoteche o in altri luoghi di perdizione. Ma, per il resto, è un basso continuo. Da cui si stacca qualche onda episodica, destinata a venire riassorbita da un solido senso di abitudine. Il fatto è che le morti sul lavoro e, ancor più, sulle strade incombono su di noi. Sui nostri familiari. Perché i luoghi di lavoro ma, soprattutto, le strade, in Italia, sono fra gli ambienti più insicuri d'Europa. Lavorare è pericoloso. Da noi più che altrove. Per diverse ragioni, per diverse cause. Per colpa dei contesti. Le aziende, i luoghi di lavoro, dove il rispetto delle regole e delle condizioni di sicurezza è spesso disatteso. E gli stessi lavoratori, talora, le disattendono. Perché costretti. Ma anche per abitudine e imprudenza routinaria. (Molte vittime, peraltro, sono lavoratori autonomi). Circolare è altrettanto - forse più - pericoloso. Di nuovo: per lo stato della nostra rete viaria. E per la generale e generalizzata tendenza a bypassare le regole. D'altronde, chi si sentirebbe "colpevole", peggio, un criminale per aver parcheggiato in doppia fila o per aver attraversato col rosso? Colpa dello Stato. Lo stesso che ci costringe a "evadere" le tasse. Per legittima difesa. Non fanno paura, i luoghi di lavoro, agli italiani, quanto le proprie case. Dove temono di venire aggrediti e derubati dagli "altri". (Ma la maggior parte delle aggressioni e delle violenze avvengono per mano di familiari e vicini di casa). Egualmente per quel che riguarda le strade: sono più preoccupati quando le attraversano da soli, a piedi, magari a tarda ora, piuttosto che in auto o in moto. A grande velocità. E' probabile che questo orientamento rifletta una consolidata definizione dei fattori di rischio. Morire per il lavoro lascia, ogni volta, un vuoto incolmabile. Però, in fondo, è "socialmente" sopportato. Nonostante la reazione costante di molte autorevoli voci (per prima quella del Presidente della Repubblica). Perché il lavoro è necessità, ma anche virtù e valore. Mezzo per vivere e ragione di vita. Per questo, morire sul lavoro, è doloroso. Un abisso. Ma ha "senso". Come un male incurabile. Morire o ammazzare altre persone sulle strade. Ha meno "senso". Però è accettato. Non quando ci tocca di persona, ovviamente. Ma quando ne sentiamo gli echi sui media. Ce ne facciamo una ragione. Perché viaggiare in auto o in moto comporta rischi calcolati. Accentuati dalla diffusa e regolare "irregolarità". Quelli che viaggiano senza cinture, quelli che telefonano alla guida, quelli che se ne sbattono dei limiti di velocità, quelli che fanno zig-zag su strade e autostrade, per superare chi sta di fronte. Non sono considerati "criminali". Ciò che fanno non è ritenuto un atto "criminoso". Nessuno, di conseguenza, invoca le camicie verdi a presidiare i luoghi di lavoro, per assicurare il rispetto delle norme di sicurezza. Per controllare e denunciare imprenditori o lavoratori "non in regola". E nessuno invoca l'intervento dell'esercito sulle strade a scoraggiare comportamenti criminosi (che, d'altronde, non sono considerati tali).
Morire sul lavoro o sulle strade non fa spettacolo e non sposta voti. Non favorisce il governo né l'opposizione. Né la destra né la sinistra. Perché al centro di questi reati, di queste trasgressioni non sono gli altri. Siamo noi, i nostri valori, le nostre abitudini, i nostri stili di vita. Per cui, facciamoci coraggio: nei cantieri e sulle strade vi saranno ancora vittime. Troppe. Accompagnate da molto dolore, un po' di rabbia e tanta rassegnazione.
Morire sul lavoro o sulle strade non fa spettacolo e non sposta voti. Non favorisce il governo né l'opposizione. Né la destra né la sinistra. Perché al centro di questi reati, di queste trasgressioni non sono gli altri. Siamo noi, i nostri valori, le nostre abitudini, i nostri stili di vita. Per cui, facciamoci coraggio: nei cantieri e sulle strade vi saranno ancora vittime. Troppe. Accompagnate da molto dolore, un po' di rabbia e tanta rassegnazione.
di ILVO DIAMANTI
Fonte: http://www.repubblica.it
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