Se non ci fosse, oggi la Cgil bisognerebbe inventarla. Per aver avuto il coraggio, unica forza di massa del Paese, di cantare fuori dal coro: denunciando con nettezza la gravità della crisi nei suoi effetti sconvolgenti di cui non c’è piena consapevolezza soprattutto nel ceto politico, proponendo un insieme di interventi alternativi a quelli del governo, chiamando le lavoratrici e i lavoratori a lottare per i propri diritti insieme a tutte le persone di buona volontà.
In definitiva, la giornata del 12 dicembre questo ha voluto dire: che oggi forse l’unica speranza di cambiamento, che non trasformi la crisi in un massacro sociale e in un’inaudita violenza sull’Italia, riposa sulle spalle del più grande e autorevole sindacato dei lavoratori salariati. E’ un dato di fatto su cui riflettere.
Il successo dello sciopero generale dimostra infatti che non tutta la società italiana va a destra, anche perché la destra, nel suo insaziabile egoismo liberista, è la principale responsabile della catastrofe incombente sulle nostre teste. E che la Cgil è in questa fase l’unico interprete di massa del malessere che sale dalla società, l’unico interlocutore riconosciuto dall’onda studentesca e dal movimento di lotta contro la “riforma” Gelmini. Uno sciopero contro la jella? Lasciamo stare le penose sciocchezze di quel tale che ha non sa più cosa voglia dire un sindacato libero e autonomo. Del resto, cosa ci si può aspettare da chi nega di essere stato a cena dal nuovo Re Sole, passando per la porta di servizio?
La verità è che la Cgil svolge ancora una volta una funzione di supplenza, nel vuoto della politica e nell’insussistenza della sinistra, che nel lavoro, oggi più che mai precario, dovrebbe avere il suo fondamento. Come accadde già nel 2002, quando il sistema politico, di fronte all’enorme movimento che attraversò l’Italia culminando al Circo Massimo, si chiuse a riccio nel combinato disposto che vide agire insieme Bertinotti e D’Alema.
Ma oggi la situazione è ben più drammatica. Perché, a fronte della presenza della Cgil nello svolgersi di una crisi globale senza precedenti, la sinistra è a sua volta fuori dal sistema politico. Il Pd, per esplicita dichiarazione di Veltroni allo spagnolo «El Pais», vuole essere un partito “riformista non di sinistra”. E la sinistra cosiddetta alternativa si è divisa in cinque formazioni, che nell’insieme raccolgono poco più del tre per cento dei voti. Non c’è bisogno della lente d’ingrandimento per vedere lo stato reale delle cose: le lavoratrici e i lavoratori del XXI secolo non hanno più in questo Paese rappresentanza politica.
Epifani mostra di esserne ben consapevole, quando afferma: “La Cgil ha un sovrappiù di responsabilità. La crisi politica ha effetti anche sul sistema della rappresentanza sociale. C’è il bisogno urgente che le persone che non condividono le scelte del governo trovino un progetto di cambiamento sul terreno politico. In un clima in cui si perde la speranza, il bisogno diventa più forte. E’ per questo – la questione dell’autonomia è ampiamente superata – che non possiamo essere indifferenti a quanto avviene in politica”. Ma la domanda è ancora più stringente. Cos’è la politica senza contenuto e rappresentanza sociali, senza la presenza libera e autonoma dei lavoratori? E cosa diventa in queste condizioni la democrazia?
Ormai lo vediamo tutti i giorni: nella migliore delle ipotesi la politica diventa politicantismo, e la democrazia trasmuta in oligarchia. Alla dittatura del capitale sul lavoro corrisponde il dominio di un’oligarchia finanziaria e mediatica sull’intera società. E i rischi sono tanto più forti dal momento che, in una miscela che può diventare esplosiva, si mescolano crisi economica e politica con il proposito di Berlusconi di rovesciare l’assetto costituzionale dello Stato. Non si può esercitare il potere in nome del popolo sovrano privatizzando la politica, cancellando dal sistema democratico la presenza politica dei lavoratori. A meno che, come crede il Cavaliere, l’organo sovrano non sia il popolo ma il capo del governo. Nel qual caso, secondo lo Statuto di Carlo Alberto ma non secondo la Costituzione della Repubblica, “la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome”.
Perciò, mentre apprezziamo e sosteniamo la posizione coraggiosa della Cgil nella tempesta della crisi, dobbiamo sapere che sempre più decisiva diventa la questione della rappresentanza politica del lavoro. Le lavoratici e i lavoratori debbono riappropriarsi della politica, perché la politica torni a essere un bene pubblico. In caso contrario, magari con la copertura dell’antipolitica, continueranno a dominare le oligarchie. E poiché la Cgil non può svolgere all’infinito una funzione di supplenza, i casi sono due: o dalla Cgil stessa e dal mondo sindacale viene una spinta forte in direzione della riforma del sistema politico, o il principale sindacato dei lavoratori corre anch’esso il rischio di un’emarginazione e di una crisi.
Certo è che dalla scomposizione e ricomposizione del ceto politico della sinistra variamente configurata in funzione elettorale non può nascere niente di nuovo. E coloro i quali, dopo aver portato la sinistra all’ attuale stato di irrilevanza, sembrano oggi puntare tutto sulla Cgil come ancora di salvezza per il loro fallimento, dovrebbero mostrare lo stesso coraggio del sindacato confederale e di Epifani. Ma per compiere un movimento in senso opposto: sgombrare il campo e farsi da parte.
In definitiva, la giornata del 12 dicembre questo ha voluto dire: che oggi forse l’unica speranza di cambiamento, che non trasformi la crisi in un massacro sociale e in un’inaudita violenza sull’Italia, riposa sulle spalle del più grande e autorevole sindacato dei lavoratori salariati. E’ un dato di fatto su cui riflettere.
Il successo dello sciopero generale dimostra infatti che non tutta la società italiana va a destra, anche perché la destra, nel suo insaziabile egoismo liberista, è la principale responsabile della catastrofe incombente sulle nostre teste. E che la Cgil è in questa fase l’unico interprete di massa del malessere che sale dalla società, l’unico interlocutore riconosciuto dall’onda studentesca e dal movimento di lotta contro la “riforma” Gelmini. Uno sciopero contro la jella? Lasciamo stare le penose sciocchezze di quel tale che ha non sa più cosa voglia dire un sindacato libero e autonomo. Del resto, cosa ci si può aspettare da chi nega di essere stato a cena dal nuovo Re Sole, passando per la porta di servizio?
La verità è che la Cgil svolge ancora una volta una funzione di supplenza, nel vuoto della politica e nell’insussistenza della sinistra, che nel lavoro, oggi più che mai precario, dovrebbe avere il suo fondamento. Come accadde già nel 2002, quando il sistema politico, di fronte all’enorme movimento che attraversò l’Italia culminando al Circo Massimo, si chiuse a riccio nel combinato disposto che vide agire insieme Bertinotti e D’Alema.
Ma oggi la situazione è ben più drammatica. Perché, a fronte della presenza della Cgil nello svolgersi di una crisi globale senza precedenti, la sinistra è a sua volta fuori dal sistema politico. Il Pd, per esplicita dichiarazione di Veltroni allo spagnolo «El Pais», vuole essere un partito “riformista non di sinistra”. E la sinistra cosiddetta alternativa si è divisa in cinque formazioni, che nell’insieme raccolgono poco più del tre per cento dei voti. Non c’è bisogno della lente d’ingrandimento per vedere lo stato reale delle cose: le lavoratrici e i lavoratori del XXI secolo non hanno più in questo Paese rappresentanza politica.
Epifani mostra di esserne ben consapevole, quando afferma: “La Cgil ha un sovrappiù di responsabilità. La crisi politica ha effetti anche sul sistema della rappresentanza sociale. C’è il bisogno urgente che le persone che non condividono le scelte del governo trovino un progetto di cambiamento sul terreno politico. In un clima in cui si perde la speranza, il bisogno diventa più forte. E’ per questo – la questione dell’autonomia è ampiamente superata – che non possiamo essere indifferenti a quanto avviene in politica”. Ma la domanda è ancora più stringente. Cos’è la politica senza contenuto e rappresentanza sociali, senza la presenza libera e autonoma dei lavoratori? E cosa diventa in queste condizioni la democrazia?
Ormai lo vediamo tutti i giorni: nella migliore delle ipotesi la politica diventa politicantismo, e la democrazia trasmuta in oligarchia. Alla dittatura del capitale sul lavoro corrisponde il dominio di un’oligarchia finanziaria e mediatica sull’intera società. E i rischi sono tanto più forti dal momento che, in una miscela che può diventare esplosiva, si mescolano crisi economica e politica con il proposito di Berlusconi di rovesciare l’assetto costituzionale dello Stato. Non si può esercitare il potere in nome del popolo sovrano privatizzando la politica, cancellando dal sistema democratico la presenza politica dei lavoratori. A meno che, come crede il Cavaliere, l’organo sovrano non sia il popolo ma il capo del governo. Nel qual caso, secondo lo Statuto di Carlo Alberto ma non secondo la Costituzione della Repubblica, “la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome”.
Perciò, mentre apprezziamo e sosteniamo la posizione coraggiosa della Cgil nella tempesta della crisi, dobbiamo sapere che sempre più decisiva diventa la questione della rappresentanza politica del lavoro. Le lavoratici e i lavoratori debbono riappropriarsi della politica, perché la politica torni a essere un bene pubblico. In caso contrario, magari con la copertura dell’antipolitica, continueranno a dominare le oligarchie. E poiché la Cgil non può svolgere all’infinito una funzione di supplenza, i casi sono due: o dalla Cgil stessa e dal mondo sindacale viene una spinta forte in direzione della riforma del sistema politico, o il principale sindacato dei lavoratori corre anch’esso il rischio di un’emarginazione e di una crisi.
Certo è che dalla scomposizione e ricomposizione del ceto politico della sinistra variamente configurata in funzione elettorale non può nascere niente di nuovo. E coloro i quali, dopo aver portato la sinistra all’ attuale stato di irrilevanza, sembrano oggi puntare tutto sulla Cgil come ancora di salvezza per il loro fallimento, dovrebbero mostrare lo stesso coraggio del sindacato confederale e di Epifani. Ma per compiere un movimento in senso opposto: sgombrare il campo e farsi da parte.
Autore: Paolo Ciofi
Fonte: http://www.megachip.info
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